Claudio Abbado 1933-2014

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Da ragazzino, ascoltavo ininterrottamente la Quinta (secondo il mio modesto parere superiore alla Sesta) di Cajkovskij da lui diretta con la London Symphony Orchestra. Inevitabilmente, per me è l’interpretazione definitiva di quella sinfonia. È un disco della Deutsche Grammophon con una stupenda foto di lui che dirige durante le prove, ha indosso una dolce vita nera. Mi pareva impossibile che una persona così giovane potesse dominare l’immensità di quella composizione.

La morte di Claudio Abbado è una tragedia. Non soltanto naturalmente per i suoi cari, per la musica, ma per l’Italia contemporanea, e per la sua sempre più traballante capacità di esportare talenti creativi di livello planetario. Abbado, infatti, non era soltanto un sublime direttore: era anche un intellettuale impegnato, che ha sempre cercato di avvicinare la cultura alta a quella popolare, una pratica che nel suo ambiente nel migliore dei casi è sempre stata guardata con sufficienza.

Soprattutto, era un artista ricco di spirito di rinnovamento civile e politico, come i tanti cresciuti in mezzo alle macerie dell’Europa stroncata dalla guerra nazifascista, uno che credeva nella ricostruzione materiale e spirituale del nostro Paese, che avrebbe potuto fossilizzarsi sulla stanca – ma mai stancante – ripetizione del repertorio dei “compositori morti” dell’epoca aurea della musica occidentale, e che invece ha impiegato il suo incredibile prestigio per spingere, sostenere, diffondere la musica del Novecento, prima che questa s’incistasse nelle – diciamolo pure: talvolta  pallose – circonvoluzioni del minimalismo o delle blandizie dei compositori di musica per aeroporti.

Ora che se n’è andato, le credenziali culturali internazionali del nostro paese sono ancora più in crisi di prima. Abbiamo molti validissimi direttori, certo. Ma nessuno di loro, a guardare ora i possibili sviluppi della loro carriera da qui a venticinque trent’anni, pare in grado di raggiungere lo status che è stato di Claudio Abbado. Muti è eccelso, ma anche una figura, in confronto, un po’ provinciale. E poi non è esattamente un virgulto. Un altro italiano sul podio dei Berliner? Temo dovremo aspettare un bel pezzo.

Con lui se ne va anche un’insostituibile fetta del nostro prestigio internazionale, in un’epoca in cui la capacità italiana di esportare cultura è al minimo storico dal secondo dopoguerra. Teniamoci stretti l’altro gioiello che ci rimane, non a caso associato ad Abbado per una vita: Maurizio Pollini.

Se non avessi l’amplificatore rotto, correrei a riascoltare la “sua” quinta di Cajkovskij.