Creepy mission, mission creep

481 sì contro soltanto 43 no. Qualche astensione. Questa volta si va, la Royal Air Force è pronta a lanciare i Tornado. Cameron ha mietuto una schiacciante maggioranza nel voto parlamentare di venerdì pomeriggio sul via libera ai bombardamenti in Iraq. Dietro di lui, compatta la coalizione Tory Lib-dem, con a rimorchio il Labour di Miliband.

Sei bombardieri della Raf di stanza a Cipro, che hanno effettuato voli di ricognizione sull’Iraq del Nord nelle ultime settimane, sono pronti a colpire nello spazio di ore. Per ora ci si limita all’Iraq: Ed Miliband non intende allineare il Labour al consenso su attacchi aerei anche alla Siria e Cameron avrebbe potuto subire nuovamente l’imbarazzante sconfitta dell’anno scorso. Senza una risoluzione dell’Onu, sulla quale i russi eserciterebbero di certo il proprio veto, Miliband non intende muoversi.

Poche, durante la seduta, le voci discordanti. Come quelle di Diane Abbott, deputato per la circoscrizione londinese di Hackney, e quella di George Galloway, il deputato di Respect. Ma lo stesso arcivescovo di Canterbury, l’ex banchiere Justin Welby, si è espresso a favore. In linea teorica non c’era nemmeno bisogno di richiamare il parlamento: Cameron poteva decidere autonomamente l’intervento. Ma la memoria della famigerata invasione nel 2003, tra le cause principali della catastrofe mediorientale nella quale gli Usa e la Gran Bretagna stanno scivolando nuovamente, obbligava almeno l’osservanza della forma.

Un sondaggio condotto dall’agenzia YouGov per conto del Sun, le cui prime pagine di questi giorni sbavano vendetta, dimostra che la maggioranza dell’opinione pubblica è incline all’intervento aereo. Più del 57% si è detto favorevole ai bombardamenti in Iraq, mentre il 51% li estenderebbe alla Siria. Favorevole a una vera e propria invasione militare è il 43%. Cameron è forte del consenso civile scatenato dalle odiose immagini delle decapitazioni di cittadini inglesi americani e francesi delle ultime settimane.

Un altro ostaggio britannico, il tassista volontario Alan Henning, è nelle mani del «Califfato»: la mobilitazione di varie personalità religiose musulmane britanniche potrebbe non essere sufficiente a salvargli la vita. Significativo il lessico da tregenda rimbalzato in questi ultimi giorni: «Sono terroristi psicopatici che cercano di ucciderci» ha detto Cameron.

In un crescendo di retorica grandguignolesca i militanti delll’Isis sono descritti come psicopatici, rivoltanti, atroci, mostruosi, indicibili, velenosi e satanici. Ha aggiunto che ci vorranno anni e non mesi per schiacciare lo Stato Islamico. È evidente che, se potesse, opterebbe senza alcun dubbio anche per i «boots on the ground», l’impiego di truppe di terra. Un’ammissione fatta nel corso del suo intervento, nel quale ha definito l’operazione come necessaria alla difesa degli interessi nazionali.

Dietro questa anodina espressione da gergo diplomatico si nasconde la scottante questione dei cittadini britannici accorsi a combattere in Siria, un problema che se interessa tutta l’Europa – sarebbero 3000 i giovani musulmani europei coinvolti nella guerra civile – riguarda soprattutto la vasta popolazione islamica della Gran Bretagna.

Il cosiddetto «Jihadi John» il decapitatore numero uno apparso nei terrificanti video delle esecuzioni, ha un accento evidentemente inglese. Solo per questo l’attacco assumerebbe a sua volta i contorni di un’altra guerra civile.

Resta il fatto che non c’è un piano coerente nemmeno a medio termine in tutta l’operazione e che il rischio che i bombardamenti siano insufficienti a risolvere la situazione quando non del tutto controproducenti, provocando ulteriore destabilizzazione nella regione. Bombardare solo in Iraq è considerato insufficiente da coloro che sono favorevoli all’intervento e la prospettiva di un’escalation del coinvolgimento del Paese è tutt’altro che irrealistica, senza contare le possibili ricadute terroristiche nella madrepatria.

E la cosiddetta «mission creep», il timore evidente ci si stia nuovamente impelagando in un acquitrino dal quale rischia di non uscire se non ad altissimo prezzo, umano e politico, serpeggia fra i banchi di Westminster.

(il manifesto, 27-09-14)

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Habemus Twin

tumblr_mi6ctjSvL51s49rcvo1_500Formule come “un atteso ritorno” non gli rendono giustizia. Per gli amanti dell’elettronica è un autentico secondo avvento: a tredici anni (un eone  nell’elettronica) dal precedente “Drukqs”, il nuovo album dell’inafferrabile Aphex Twin, “Syro”, è finalmente disceso fra noi.

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Tariq Ali sull’esito del referendum scozzese

Mia traduzione di un pezzo d Tariq Ali, sul manifesto di oggi. Ali è stato una delle forze motrici della Radical Independence Campaign.

Il risultato scozzese farà felici gli unionisti di ogni sorta, dagli orangisti ai tories, fino ai laburisti. Il Regno Unito è salvo. Hanno vinto di 400.000 voti. Non un grande trionfo: una vittoria tuttavia, e la sconfitta del movimento indipendentista. Attendo i dati definitivi su età, genere e classe prima di commentare questi aspetti, ma la storia non finisce qui. La loro vittoria è stata resa possibile da un Project Fear («Progetto Paura», ndr) che ha richiesto una campagna mediatica di feroce intensità che sarebbe piaciuta a Goebbels. Riporta alla memoria le recenti offensive in Sudamerica, ma lì avevamo vinto nonostante l’opposizione del 99% dei mezzi d’informazione. Anche qui i media hanno avuto il sostegno di una violenta campagna delle grandi aziende, banchieri in testa, e tutti i partiti mainstream.

Nonostante ciò, il voto per l’indipendenza era quasi al 45% e a Glasgow e Dundee ha ottenuto la maggioranza. Quanto la memoria sia corta di questi tempi lo dimostra l’elevazione di Gordon Brown a salvatore dell’Unione. Buona la sua performance a base di lacrime di coccodrillo per quell’Nhs che lui e Blair avevano già cominciato a privatizzare e indebolire con dubbie iniziative finanziarie private. Il ministro della Sanità del New Labour Alan Milburn ora lavora per l’industria farmaceutica, in un’azienda che aveva aiutato da ministro!

Che succederà ora? Cameron userà la vittoria per presentarsi come il salvatore dell’Unione e non del tutto a torto. Dopo tutto il Project Fear è stato lanciato a Downing Street con Nick Clegg ed Ed Moribund (Miliband, ndt) costretti a servire da paggi. Allo stesso tempo Cameron porterà avanti (con le misure della devo-max) una legge che squalificherà i deputati scozzesi dal votare su questioni inglesi. Questo manterrà i Tories uniti, lo Ukip felice e il Labour fregato. Niente più carne da cannone scozzese per i voti di Westminster sulla finanziaria!

In Scozia il Snp farà un intenso esame di coscienza. Come avranno fatto a perdere nelle loro roccaforti? Non si saranno impegnati abbastanza? Salmon (senza la «d», ndt) dovrebbe lasciare e subentrargli Sturgeon? Salmond ha dato le dimissioni. È stata una decisione onorevole e a novembre il Snp eleggerà un nuovo leader che con ogni probabilità sarà Nicola Sturgeon. Che dovrà fare un’autopsia rigorosa.

A sinistra la vivace e non settaria Radical Independence Campaign ha lottato bene. È importante conservare e rafforzare una corrente come questa nella politica scozzese per perorare la causa di una Scozia diversa, e questo significa tenere unito il movimento. La Scozia radicale non scomparirà, e qui il modello non dovrebbe essere alcuna regressione ai comprovati fallimenti della sinistra socialista ma più qualcosa di simile al Podemos spagnolo. Vi saranno tristezza e demoralizzazione ed è perfettamente comprensibile, ma non durerà a lungo.

La politica britannica sta peggiorando, non migliorando. La paura conduce alla passività e anche se in questo caso gli unionisti sono riusciti a portare alle urne i timorosi, potrebbero non riuscirci di nuovo. La speranza porta all’attività e questo è ciò che la campagna per l’indipendenza ha rappresentato. Vinceremo la prossima volta.

(il manifesto, 21-09-14)

Bitter together

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Nel giorno in cui la maggioranza silenziosa scozzese ha fatto sentire il suo peso nelle urne, passata l’euforia per il salvataggio in extremis dell’Unione, raggiungiamo Donald Sassoon, professore emerito di storia europea comparata presso il Queen Mary College dell’università di Londra e autore del recente Quo Vadis Europa, edito da Castelvecchi.

Professore, la citazione del giorno è «bitter together», a evidenziare che la crisi del settecentesimo anno sarà anche passata, ma questo matrimonio resta travagliato…

Non male la battuta, e niente affatto fuori luogo. Ma le ripercussioni ora sono più in Inghilterra che non in Scozia. Se nel referendum fosse stata inserita la domanda sulla devo-max, avrebbero tutti votato per quella. Sulla scia del panico per i sondaggi, i tre leader (Cameron, Miliband e Clegg, ndr) avevano promesso un incremento dei poteri per Edinburgo pur di ridimensionare i «sì» e ora dovranno mantenere la promessa. In questo momento a Westminster ci sono circa una sessantina di deputati scozzesi ripartiti più o meno come segue: i liberali sono 11, i nazionalisti 6, i laburisti 40 e i conservatori sono… uno. Ora, è inimmaginabile che questi sessanta deputati scozzesi continuino ad avere potere decisionale su interessi specificamente inglesi come le tasse quando, com’è noto, Westminster non ha le stesse prerogative in Scozia. Bisognerà trovare una via di mezzo, evitando lo squilibrio. Ma questo danneggerebbe i laburisti inglesi: se vincessero le elezioni grazie anche ai 40 deputati scozzesi e poi costoro venissero “istituzionalmente” meno, come farebbe a governare?

Questo spiega l’atteggiamento in parte distaccato dei conservatori rispetto alla questione indipendenza.

Il motivo per cui i Tories erano un po’ schizofrenici è che da un lato a loro conviene che gli scozzesi non esistano nella Camera dei Comuni perché loro stessi non esistono in Scozia: un po’ come se la destra in Italia potesse fare a meno di Toscana ed Emilia. Per questo la devo-max è una minaccia enorme per un futuro governo Labour.

Quella dell’Unione è dunque una vittoria di Pirro?

È una situazione strana. Salmond è sconfitto e con lui almeno per una generazione l’idea d’indipendenza. D’altro canto, ha ottenuto il massimo che potesse sperare. Prendiamo la formula Barnett, che prende il nome dall’omonimo Lord laburista che la concepì negli tardi anni Settanta: stabilisce la spesa pubblica pro capite per Scozia, Irlanda del Nord e Galles. È controversa perché per la Scozia è circa del 20% più alta che per Inghilterra. Ora la Scozia non si può definire convenzionalmente povera. Di certo lo è meno di Galles e Nord Irlanda. È chiaro che i Tories a destra di Cameron cercheranno di abrogarla. Né vorranno più che i deputati scozzesi interferiscano negli affari inglesi. Ma il guaio più grosso sarà per i laburisti, che rischiano di perdere ben 40 deputati in una loro possibile futura maggioranza. Tenendo conto che Cameron ha anche promesso un referendum sull’Europa nel 2017, qualora rivinca le elezioni, siamo alle porte di una grossa crisi costituzionale.

In un Paese che non ha costituzione.

Non avendo una costituzione scritta si può fare di tutto. La si stabilisce facendola man mano.

E la decisione di omettere il quesito stesso sulla devo-max nella formulazio- ne originaria del referendum?

Salmond era pessimista, pensava di perderlo, com’è poi stato. Dunque la sua idea era provare almeno a portare a casa un ampliamento della devoluzione, giacché era chiaro che tutti avrebbero votato perché la Scozia ottenesse almeno maggiori poteri. Per questo Cameron ha voluto evitare di includerlo. Ma i sondaggi hanno aumentato il panico. Ora che la coalizione e il Labour si sono in parte rassicurati, faranno di tutto per ridimensionare le promesse fatte. Resta il problema che la Scozia ora ha un parlamento, ha un governo, ha tutte le prerogative istituzionali di uno Stato sovrano, mentre l’Inghilterra non le ha. È un assurdo istituzionale che non esiste altrove.

(il manifesto 20-09-14)

(No: they could)

Dejected Yes vote campaigners make their way home

(Ovvero ciò che avrebbe potuto significare la vittoria del sì per il referendum sull’indipendenza scozzese)

In quella che potremmo definire la sinistra britannica «extralabour» il dibattito sull’indipendenza travalica i confini angusti della critica ortodossa al nazionalismo. Tale dibattito è riassumibile in questi termini: l’attuale coalizione, capitanata dalla premiata ditta Cameron & Osborne, che sta proseguendo imperterrita nello smantellamento di quel welfare state che dal secondo dopoguerra si era reso garante di una relativa pace sociale, non è che l’ultima di una serie di maggioranze che, nel centrodestra come nel centrosinistra, si avvicendano in tale smantellamento. Urgeva una via di fuga da un simile destino già scritto. L’indipendenza scozzese potrebbe esserlo. Poco importa che siano i nazionalisti a propagandarla.

Se ne sono resi conto in tanti nella sinistra britannica. Personaggi come come Billy Bragg, Tariq Ali e Irvine Welsh, artisti e intellettuali tutti riconducibili alla sinistra del Labour, hanno ripetutamente dichiarato il proprio sostegno per l’indipendenza, pur prendendo le distanze da un certo lezzo nazionalista ortodosso che si leva da alcune fila del fronte Snp. Significativa, a questo proposito, la posizione del singer-songwriter inglese Bragg. Dalle colonne del sito del Guardian, ha risposto alle accuse di tradimento della solidarietà internazionale della working class. Ha ammonito coloro che a sinistra – pur giustamente – aborrono qualunque forma di nazionalismo, invitandoli a non chiudersi nell’asfittica gabbia di un internazionalismo a tutti i costi. Ma soprattutto, ha confutato i paragoni strampalati fra il nazionalismo etnico dei fascisti del British National Party e quello civico del fronte scozzese del sì, che esprime una congerie di realtà politiche antagoniste che travalica il Snp. «Il nazionalismo etnico del Bnp è visibile a tutti: il piano per una società che esclude le persone su basi razziali. Il programma del Snp ha una posizione diametralmente opposta: è per una società inclusiva basata su dove ti trovi, non da dove vieni».

Nel motivare la propria adesione al sì, Neal Ascherson, giornalista scozzese allievo di Eric Hobsbawm, ha scritto sul quotidiano scozzese Herald: «La guerra in Iraq e Tony Blair mi hanno dimostrato che il Regno Unito non è più un paese indipendente; la campagna referendaria ha rivelato che molti scozzesi stavano rompendo la gabbia di impotenza e dirigendosi verso l’indipendenza che avrebbe portato alla grande scelta: che Scozia vogliamo?»

Da critico dell’establishment di lungo corso, Tariq Ali ha affidato i suoi commenti a un intervento sulla London Review of Books: «La Scozia è una nazione da lungo tempo» ha scritto in una editoriale collettivo, «Scopriremo presto se i suoi cittadini desiderano ora che la nazione diventi Stato. Spero di sì. Non solo aprirà nuove opportunità per il loro Paese, ma romperà lo Stato britannico atrofizzato e decadente e ne ridurrà l’efficacia come vassallo degli Stati Uniti. Questo spiega gli appelli di Obama e Hillary Clinton a votare no, un sentimento che Blair condivide appieno, ma che non osa ammettere nel timore di dare impeto alla campagna avversa». Per poi aggiungere: «La notevole crescita del movimento pro-indipendenza è il risultato dello smantellamento del welfare state da parte di Thatcher e dell’ammirazione che per esso hanno avuto Blair e Brown. Fino allora, gli scozzesi erano pronti a restare con il Labour nonostante la corruzione e ribalderia che caratterizzava la macchina del partito in Scozia. Ora non più».

Dal canto suo, lo scozzese Welsh ha scritto un appassionato intervento su Time: «Qualunque sarà il risultato, sarà quella minoranza turbolenta, litigiosa e compassionevole degli scozzesi a prevalere, e in modo del tutto straordinario. Con una percentuale d’iscritti al 97%, mai vista nel mondo occidentale, hanno mostrato che una potenza del G7, impelagata com’è in un modello di globalizzazione neoliberista, può subire una sfida, una rottura. E l’istituzione di una democrazia vibrante e non militarizzata»

(il manifesto, 19-09-14)