Il supremo dilettante

È ozioso cercare di definire Brian Eno. No invece, è intrigante, perfino divertente.  “Mâitre à penser della cultura contemporanea”, “teorico della multidisciplinarietà”, “catalizzatore culturale”… Quasi quasi sarebbe da pensare a un’App che genera, aleatoriamente, definizioni su chi è e chi non è. Quando leggo articoli su di lui vado subito a cercarle, quelle definizioni.  Sono un autentico banco di prova per chi scrive il pezzo. Da quelle più infantili (Dr Eno) fino allo spassoso anagramma del suo nome (Brain One). Lui, che tanto ama gli anagrammi. Un amore sintomatico di tutta una metodologia. Le famose Oblique Strategies, le carte da lui create assieme a Peter Schmidt negli anni Settanta, servivano proprio ad inserire un elemento scompaginante nel processo creativo, in questo caso principalmente il lavoro in studio di registrazione, per disincagliarlo. Vari dischi importanti sono stati registrati utilizzandole.

Il post rock comincia davvero con lui. Perché del rock è stato il primo a capire i limiti della metodologia. Che abbia usato questa sua fondamentale intuizione all’inizio per scardinare una forma, e ora, da produttore di UCold2Play, cerchi precipitosamente di tenerla a galla non è affatto da leggersi come una contraddizione. Anche agli esordi, lo scardinamento era piuttosto una reinvenzione. Nel rock ha deciso di restare, nonostante le miriadi di incursioni altrove. Non mi sorprenderebbe che dopo questo Lux, seguisse un altro album nella forma canzone. Perché naturalmente, oltre che “eclettico manipolatore di linguaggi”, è anche un ottimo cantante.

È più facile avvicinarsi all’essenza di quel che è dicendo che ha dato colore, peso e volume allo spazio che sta attorno alle cose. Non esiste artista pop che abbia saputo riempire in modo altrettanto stupendamente evasivo questo spazio. Nel suo lavoro la rete è più importante della preda.  Nessuno ha saputo parlare artisticamente di cultura e intellettualmente d’arte con voce altrettanto convincente, suadente, accattivante. Le sue lectures sono lì a dimostrarlo: anche se non sviluppano affatto le suggestioni che contengono, sono sufficienti a innescare nell’ascoltatore ragionamenti molto proficui. Come quello sulla “dialettica tra samba e microchip” in conversazione con Jon Hassell, all’Ether Festival del 2009.

Naturalmente, non è immune da critiche. Tutto quel che di bene si può dire di lui è rovesciabile. L’eclettismo diventa dilettantismo, l’ambient una specie di ripiego dal non saper percorrere in modo consistente un percorso creativo consolidato, un po’ come certi figli di diplomatici che parlano abbastanza tante lingue e nessuna bene. L’inglese ha questo detto molto efficace: “Jack of all trades, master of none”: ebbene, Eno ha dimostrato che non bisogna vergognarsi del non possedere appieno una tecnica. In questo è perfettamente postmoderno.

A ben guardare, la sua operazione è stata, ed è tuttora, leggibile in modo abbastanza lineare: un baby boomer che ha applicato quanto imparato alla scuola d’arte (quel College of Art generico senza cui non esisterebbero né i Joy Division né Damien Hirst, tanto per citare due nomi a caso) dando un background teorico (e quindi dignità intellettuale) alla musica pop grazie ad un’intelligenza assolutamente onnivora. Che l’industria del pop gli deve molto è confermato dalla riverenza di cui ha sempre goduto nell’ambiente: le popstar si sentono un po’ in soggezione in sua presenza, fatto corroborato da parecchi aneddoti. Salvo poi cadere vittime del suo charme arguto e iperbritannico.

Eno ha dimostrato che l’intelligenza non è necessariamente nemica della spontaneità e che le dicotomie sulle quali siamo abituati a fondare i nostri tentativi di comprensione del reale (intelletto/emozioni ecc.) sono spesso ingannevoli. In un secolo, il Ventesimo, in cui la mappa è diventata più importante del territorio, lui  – come tanti altri ma meglio di tanti altri -, ha spostato l’accento sul confine della mappa: comporre un brano musicale come se dipingesse un quadro, produrre un album come se scrivesse un testo. Il teorico dell’arte che spodesta l’artista, esattamente come il sintetizzatore, suo non-strumento d’elezione, ha spodestato gli strumenti. E mentre molti suoi colleghi erano –  e sono  – ancora impegnati a comprendere il Ventesimo secolo, lui ci si è trovato a proprio agio fin dall’inizio, impegnato com’era a indicare le vie del suo superamento.

Un superamento ora superato. Il suo ritorno all’ambient, un linguaggio ormai tanto consolidato da essere faticosamente distinguibile da certa muzak di cui era all’inizio geniale critica, ne è segno. Un altro segno è il fatto che il nuovo Lux (in uscita il prossimo 13 novembre) sia pubblicato da Warp, una casa discografica che senza di lui non sarebbe, appunto, esistita. L’obliquità e diventata ubiquità. Ma come mi ha detto dimostrando di essere capace all’occorrenza anche di un buon vecchio cliché, del suo posizionamento nella storia della cultura del secondo decennio del terzo millennio non gliene importa molto: come ogni artista, cerca di produrre qualcosa che gli piace. E comunque, provateci voi a rivoluzionare due epoche in un’unica piccola vita.

Quest’intervista, nell’Espresso in edicola da oggi, è stata per me un coronamento a lungo atteso. Eno è un mio idolo da sempre, da quando consumavo il vinile di Another Green World fregandomene di Who, Queen e Led Zeppelin. Il suo lavoro sul suono è complice della mia nevrosi audiofila. È stata una delle pochissime volte (l’altra è stata con Peter Gabriel) in cui gli parlavo da fan e non da giornalista. Un bell’incontro. Il climax è stato per me quasi all’inizio. Quando mi ha detto che non ama le cuffie per via della lateralità del suono gli ho parlato delle leggendarie Stax Sigma, un modello vintage giapponese che la elimina, dando l’illusione che la fonte sonora si trovi di fronte all’ascoltatore. Incredibilmente, non lo conosceva. “È proprio quello che fa per me!” esclama. Sto forse sognando? Ho appena dato a Brian Eno un suggerimento tecnologico.

Quello che segue è un piccolo extra della nostra chiacchierata.

Se uno decide di provare a lasciare un segno coscientemente è molto difficile che ci riesca e probabilmente non ci sarei riuscito. Lo stesso vale per questo pezzo: non cercavo di fare altro che comporre un brano musicale che mi piacesse ascoltare. D’altro canto quello che mi piacerebbe ascoltare costituisce un obiettivo in movimento ed è ovvio che non mi interessa ascoltare una musica che già altri stanno facendo. Voglio fare della musica che soltanto io posso fare, altrimenti non è altro che impilare la stessa roba. Sono abbastanza difficile da soddisfare, posso comporre musica tutto il giorno e tutta la notte ma non mi sento mai sazio finché non mi soddisfa. Quello che produco finisce nel mio archivio, tranne quando ogni tanto non sento qualcosa che cattura la mia attenzione, qualcosa che non avevo sentito prima e che mi piace. È soltanto questo il criterio che seguo. Ricordo anni fa di aver letto l’intervista a un detective americano di Chicago di grande successo. L’intervistatore gli chiedeva come mai fosse così bravo, più bravo degli altri. E lui rispose: “se di solito fai un doppio take, beh fai un triplo take”* che in buona sostanza significa fare molta attenzione a ciò che si nota. Nel caso della musica spesso si tratta di minime cose, come ad esempio quel particolare passaggio: se cattura la tua attenzione allora devi crederci, seguilo, anche se fosse una cosa assolutamente minima. Ad esempio, i pittori fanno sempre dei dipinti bidimensionali senza nemmeno pensarci: è una di quelle idee che nessuno ha mai pensato di mettere in questione. Di altre idee invece si è consapevoli, si sa che le si sta recuperando dal passato e riutilizzando per vedere come si comportano in nuovo contesto. Altre invece vengono deliberatamente escluse, e quella è una decisione. Infine, un’ultima piccola percentuale è composta da idee effettivamente nuove idee di cui nessuno ha mai sentito parlare prima, te compreso. Trovo molto interessante guardare al proprio lavoro in retrospettiva e vedere quali parti di esso appartengono a queste quattro categorie: è un tipo di analisi che mi piace particolarmente.

* “to do a double take” si riferisce a quando una persona vede casualmente qualcosa che colpisce la sua attenzione solo in un secondo momento, e mima nuovamente il gesto di osservarla con lentezza esagerata per enfatizzare la sorpresa.

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Dead Can Dance, mistero migrante.

I Dead Can Dance si sono conosciuti a diciassette anni, di notte, all’altro capo del mondo. È anche per questo che la loro musica migliore contiene uno stupefacente impulso chiaroscurale: buio e luce intrecciati in una ghirlanda. Ascoltandola, non si capisce se si è sull’orlo di un abisso o su un’altissima cima: non esattamente la colonna sonora adatta ad una fila alle Poste. O forse indispensabile.

Ho parlato con Brendan Perry qualche tempo fa per Rockerilla (numero di ottobre). Questo è quanto mi ha detto.

Lo schianto, il lamento.

In un panorama “alternativo” incapace di liberarsi dalle virgolette, sono gli unici ad averne avuto il fegato. Il loro ritorno dopo dieci anni di silenzio non sarà forse all’altezza dei cataclismi emotivi di un tempo, ma la luce bianca della liberazione traspare ancora dai loro immensi crescendo. Personalmente, non ho mai dubitato che fossero gli unici davvero capaci di un travolgente percorso etico, estetico e drammatico. Senza i piagnistei di un cantante, senza la costrizione di una forma carina. Mogwai e Explosions in the Sky? Mah.

Ieri ho letto quest’intervista al Guardian di qualche giorno fa e non ho potuto non smettere di fare quello che stavo facendo per tradurla lì per lì. È un lavoro fatto di getto, non renderà forse la poesia ideologica del linguaggio ma chi se ne frega: ho pensato fosse importante renderlo disponibile in italiano immediatamente: non si leggono cose del genere tutti i giorni nella stampa mainstream.

I Godspeed you! Black Emperor sono una delle poche band veramente politiche degli ultimi quindici anni, capaci di partecipare alle lotte della loro città, Montreal, i cui altri esponenti (i talvolta irritanti Arcade Fire, per esempio) in confronto sono roba da boutique. Un collettivo capace di un discorso lucido ed estremo come solo forse i Crass vent’anni prima di loro. Inviterei a riflettere particolarmente sulla scintillante dichiarazione d’intenti in quello che un certo gergo definirebbe “mission statement”, nella consapevolezza della quale sono cresciuto e che mi ha violentemente commosso leggere in una formulazione dalla chiarezza così accecante: “O fai musica che intrattiene il re e la sua corte, oppure fai musica per i servi fuori le mura.”

E penso a Eliot: “E’ questo il modo in cui finisce il mondo. Non già con uno schianto ma con un lamento”. Viviamo in tempi apocalittici e il loro oceano di suono che preme, che preme fino a rompere continuamente la diga della nostra indifferenza, riesce a dire il lamento del mondo.

Per me, i Godspeed sono sono più che soltanto una band, sono un’idea. È altrettanto vero per voi? E se qualcuno di voi non si trovasse più d’accordo con quell’idea? Più metaforicamente, chi sono, oggi, i Godspeed? In che modo sono cambiati i membri della band in questo periodo di assenza dalle scene?

Siamo una band. Non siamo “solo una band”. Siamo noi contro il mondo, chiaro? Come tanti poveri scemi prima di noi. Le band restano stritolate nell’ingranaggio prima che lo sia il resto del mondo. E mentre vengono stritolate in quel modo, cantano canzoni carine.

Il fatto, noioso, è che passiamo la maggior parte del nostro tempo impegnati nel compito del momento, provare, comporre, fissare tour. Facciamo del nostro meglio per andare d’accordo, mantenere un impegno nei confronti nostri e in quelli del lavoro condiviso. Pensiamo che la maggior parte delle cose con le quali ci arrabattiamo siano le stesse con cui si arrabattano innumerevoli altri gruppi: niente di speciale, niente di interessante. È solo che prendiamo decisioni basandoci su un ostinato calcolo particolare. È quel piccolo tintinnio che inseguiamo quando ci sbattiamo nella nostra piccola sala prove. È solo che ci piacciono i suoni leggermente stonati. È solo che sappiamo che la musica è solo una cosa che la gente fa in mezzo a lotte più grandi. E siamo sempre in lotta contro i mulini a vento, temendo di essere sbalzati a momenti dalla sella.

Abbiamo cominciato a fare questo rumore assieme da giovani e scannati, l’unica cosa di cui eravamo sicuri era che gli autori professionisti parevano mille miglia lontani e che a nessuno fregava un cazzo della roba che ci piaceva, a parte noi. Parlare di punk rock con giornalisti freelance, allora come oggi, era come scorreggiare a una cerimonia di beneficienza, una cosa che ti faceva cacciare via dalla festa.

Sapevamo che c’erano altre persone che la pensavano come noi e volevamo aggirare quelli che vedevamo come ostacoli superflui per trovarle da soli. Eravamo dei bastardi timidi e orgogliosi e così interagivamo con il mondo. Il che significava decidere che non avremmo avuto nessun cantante, nessun leader, non avremmo dato alcuna intervista, che non ci saremmo fatti nessuna foto stampa. Suonavamo seduti e con dei film proiettati sopra di noi. Niente pose rock. Scrivevamo brani lunghi o corti a piacimento. Registrazioni di feedback in cantina con i filtri delle sigarette ficcati nelle orecchie. Nel frattempo le nostre vite private erano un casino.

E così siamo partiti in tour appena possibile, è lì ci siamo spezzati il cuore, come può succedere solo ai veri credenti. Se dai troppo filo a un aquilone, finisce che ti si impiglia sulla luna.

Qualunque idea politica avessimo derivava dal non avere mai un soldo e dal vivere in un’epoca in cui secondo la narrativa dominante tutto andava bene e che tutto sarebbe andato bene, per sempre. Era naturalmente una bugia. Ma Clinton era presidente, il muro di Berlino era caduto, l’economia era in boom e internet era una cosa nuova e luccicante che ci avrebbe liberati tutti. I guardiani osservavano il regno, dichiarando che tutto andava bene. In quel mentre, tanti di noi erano estromessi, guardando da fuori tutto quell’oro.

Così, quando con questo frastuono cominciammo a pagarci l’affitto, cominciammo anche a sentirci sotto parecchia pressione interna perché restassimo fedeli alle nostre insoddisfazioni di adolescenti (non nel senso di ingenui o immaturi, ma in quello di puri e irrimediabilmente senza diritti). E così prendemmo decisioni che irritarono parecchi. Eravamo appena in grado di spiegarci. Non ce la cavavamo bene con chi proveniva da fuori, eravamo abituati a parlare a quelli come noi. Tutti avevamo passato gli anni della formazione come degli outsider e un po’ persi. Non avevamo religioni da urlare se non noi stessi, tutti assieme, sempre. E urlammo quella religione in un’epoca in cui quel genere di rumore era etichettato come onesto, ingenuo e noioso. E noi eravamo onesti, ingenui e noiosi. E ancora lo siamo.

C’è una cosa che in molti non hanno capito di noi: quando cominciammo, la gioia era parte di molto di quel che facevamo. Cercavamo di fare musica pesante, gioiosamente. Erano tempi duri, ma la linea del partito era che tutto andava bene. C’erano molte band che vi reagirono, facendo una musica “pesante”, che si lamentava ma che suonava falsa. Detestavamo quella musica, detestavamo l’espressione di privilegio di quell’angoscia esistenziale, volevamo fare musica come quella dei Friends and Neighbours di Ornette*, un rumore gioioso, difficile, che riconosceva la difficoltà del momento ma la respingeva allo stesso tempo. Una musica che parlasse di noi tutti assieme, o niente. Detestavamo che ci considerassero negativi. Ma sapevamo che un problema altrui. Per noi ogni pezzo cominciava con la tristezza ma verso la fine puntava al cielo, perché come fai a trovare il paradiso se non prendendo atto della tristezza che c’è?

Ma ora che i tempi si sono fatti duri ecco un sacco di band reagire all’attuale pesantezza preferendo i tempi della festa, come una bizzarra cazzata a base di volontà di potenza tipo Scientology, batti quel charleston con il pugno chiuso finché non siamo in paradiso, fino al down della domenica mattina. Buone vibrazioni insicure che si intravedono sotto la maglietta American Apparel di un ventiduenne in un locale dove puoi ballare solo dopo che hai pagato una tariffa di 10 dollari per ascoltare l’iPod di qualche re di internet.

Così ora canticchiamo le nostre gioiose tensioni in opposizione a tutto questo. Le cose non vanno bene. E la musica dovrebbe riguardare le cose che non vanno bene, o non esistere affatto. Le migliori canzoni di sempre sono quelle che seguono quella linea. Noi cerchiamo solo di avvicinarci a quella perfezione. Guidiamo tutta la notte solo per avvicinarci a quel perfetto suono gioioso, solo per baciare l’orlo di quell’indumento. Amiamo la musica, amiamo le persone, amiamo il rumore che facciamo.

Chi sono oggi i Godspeed? Chei è rimasto, chi se ne è andato, chi è arrivato e perché è arrivato?

La formazione dei Godspeed è la stessa dal 1994. Piccoli cambiamenti, Cello Norsola non suona più con noi. E Bruce, il batterista, se n’è andato l’anno scorso così da poter passare più tempo con suo figlio. Timothy è il secondo nuovo batterista. Siamo strafelici.

Può la musica politicizzata cambiare qualcosa? Lo volete? E quell’intenzione di cambiamento è rivolta all’esterno o all’interno? Un cambiamento interiore o di struttura sociale? In che misura Montreal e la sua politica fanno di voi le persone che siete e la band che siete? Avete una narrativa in mente per la vostra musica? Se chi vi ascolta sente una narrativa differente rappresenta per voi un problema?

Cos’è la musica politicizzata? Tutta la musica è politica, no? O fai musica che intrattiene il re e la sua corte, oppure fai musica per i servi fuori le mura. A questo serve la musica (e la cultura), giusto? Distrarre, opporsi, o tutt’e due le cose allo stesso tempo? Siamo così in tanti a sapere già che quella roba è fottuta.

In più di un aspetto fondamentale è più facile trovare una causa comune che non 10 o 20 anni fa. Basta parlare a sconosciuti nei bar o per strada e ti rendi conto che ci siamo tutti dentro fino al collo, no? Solo che adesso siamo più numerosi che mai. È un fatto. Ogni giorno diventa un po’ più difficile fingere che vada tutto bene. I ricchi continuano a ricevere di più e noi di meno. Post-9/11, post-7/7, c’è uno stato di polizia che dà giri di vite giorno dopo giorno, e nella nostra quotidianità assistiamo ai risultati avvilenti di un’autorità dissoluta – imprevisti stop al traffico, infrastrutture fatiscenti, burocrati corrotti e poliziotti lattanti con le loro meschine intrusioni. Le nostre città sono senza un soldo, mettono toppe di asfalto su toppe di asfalto, le nostre foreste abbattute e vendute per fare giornali soltanto per dirci del traffico nel quale siamo bloccati. Prendi una multa e passi la giornata in fila. Il poliziotto spara al ragazzino, i ragazzino spara al ragazzino, gli homeless muoiono aspettando una visita medica, gli anziani stesi su un letto d’ospedale mentre una burocrazia sfasciata li deruba di quel che resta della loro dignità. La gente viene in fuga da noi fuggendo il casino che abbiamo fatto nei loro paesi e noi li trattiamo come ladri. Soprattutto sembra che tutto quel che ami ti sarà strappato via. Accendi la radio ed è un fottuto film dell’orrore, le cose che i nostri governi fanno in nostro nome, solo per ingrassarsi del nostro declino costante. Nel frattempo, la maggior parte di noi continua a sbattersi in una terribile alienazione, maltrattati, lasciati nella colpa e nella menzogna. Campi in fiamme e un cielo pieno di drone. Il frutto marcisce sui tralci, e milioni muoiono di fame.

Ci troviamo dunque ad uno snodo storico in cui è chiaro che qualcosa deve succedere, il problema è che le cose potrebbero prendere qualsiasi piega. Siamo entusiasti e terrorizzati, ci sediamo e cerchiamo di produrre gioioso rumore. ma, cazzo, facciamo musica strumentale il che significa che dobbiamo lavorare duro per creare un contesto che […] indichi la strada verso la resistenza e la libertà. Altrimenti non è che un rumore carino in sella a qualunque cavallo si presenti. La maggior parte delle volte tutto quello che sappiamo è che non giocheremo a questo stupido gioco. Qualcuno ci dice che siamo speciali, noi diciamo: “col cazzo che siamo speciali”. Qualcuno ci chiede che cosa significhino le cose che abbiamo fatto, noi rispondiamo trovatelo da te il significato, gli indizi sono tutti lì. Pensiamo che la testardaggine sia una virtù. Sappiamo che questo può essere frustrante. Va bene. Non ragioniamo tanto in termini di narrativa. Cerchiamo di suonare arrangiamenti che sono un po’ fuori della nostra portata. Cerchiamo di assicurarci che le canzoni risultino autentiche, oppure niente. Montreal è un posto che perde continuamente di fascino. È una città corrotta in una provincia corrotta, dove in qualche modo la luce squilla comunque forte. Nonostante tutto, tanti piani folli concepiti, tanti miracoli minori. La polvere di questo posto ci si è seccata nel cuoio capelluto e nelle unghie: non ci sarebbe una band se non fosse per questa adorabile, marcia città.

Nel frattempo questa città è recentemente esplosa, ma ancora non si vede vittoria. Questa provincia è ancora corrotta e il nostro sfasciato paese guadagna il suo sporco petrolio carico d’oro. Grazie al quale i ricchi si arricchiscono ancora di più, e il resto di noi muore lentamente.

Siamo nati tutti il peso di un’autorità da quattro soldi. È un miracolo che così tanti di noi ce l’abbiano fatta attraverso l’adolescenza. La politica è per gli uomini politici e tutti i nostri uomini politici emanano un lezzo di morte, è per questo che si mettono tutto quel profumo e quella colonia, è per questo che indossano sciarpe e cravatte a colori vivaci, proprio per distrarre dal pallore della loro carnagione. Siamo davvero in tanti a voler vivere lontano da quel puzzo, barcolliamo goffamente verso la luce, stupiti che così tanti di noi barcollino assieme così, amen.

Com’è nato questo album?

Siamo tornati assieme dopo dieci anni, abbiamo imparato di nuovo i vecchi pezzi, suonato in un po’ di posti. Non ci saremmo impantanati nel circuito retro come Sha Na Na alla mostra di auto di Windsor. Per cui a un certo punto abbiamo deciso di registrare, è quello che fanno le band. Inoltre, volevamo fissare questa roba nel caso scomparisse ancora. Ci siamo sistemati a Montreal, abbiamo fatto girare i nastri e sperato. L’ultima volta in questo pezzo abbiamo litigato come sorelle gemelle, stavolta lasciamolo correre.

C’è mai stata una volta in cui avete smesso di apprezzare la possibilità di comunicare attraverso la musica? Da precedenti interviste sembra qualcosa su cui avevate dei dubbi. È un fraintendimento e se non lo è li avete ancora?

Diavolo, no, non ci siamo mai stancati di suonare per le persone, ci siamo sempre considerati fortunate di farlo. È solo che il rock business, allora come oggi, è un porcaio miserabile. Soldi buttati, navi in avaria pronte a colare a picco, mentre da qualche parte demoni pigri ridacchiano e contano le mazzette. È come guardare miliardari che pisciano su angioletti. Gli affaristi odiano i fottuti ragazzini e li trattano come roba loro, li mungono come mucche e li conducono da un punto all’altro come forsennati acquirenti da Dollar days.** Nella maggior parte dei casi hai a che fare sciocchi privilegiati che sono del tutto insicuri. Odiano il loro lavoro, amano i soldi e ne vogliono altri. In qualche modo un sacco di giovenche affamate continuano a tornare a quel trogolo volendone ancora. Da qualche parte dentro di se sanno che il latte è avvelenato ma non possono smettere di berne.

Sbattere contro quel muro ti sfinisce, a un certo punto devi smettere altrimenti ti rompi. Inoltre, mentre quella battaglia è importante (perché tutte le battaglie contro questo declino normalizzato sono importanti), la maggior parte del mondo, comprensibilmente, se ne sbatte, si sta facendo del lavoro più importante là fuori, ingiustizie di classe più grandi dell’avidità dell’industria musicale. E la maggior parte di noi in questo mondo sfasciato se la cava appena, per cui ti immergi nei casini di quest’orrido music business deciso a fare la tua parte affinché cambi, ma non cambia niente. Hai vittorie che sembrano immense ma quasi nessuno se ne accorge a parte i ragazzini in prima fila. Te ne preoccupi, fin quando dopo un po’ cominci a sentirti come quella rottura di amico che non riesce a smettere di lamentarsi della sua ex. Succede questo e non vuoi pensarci più a quella Babilonia di sistema. Per cui abbiamo smesso. E poi abbiamo ricominciato.

Ora siamo reduci fortunati, buttiamo sul palco gli amplificatori e suoniamo a testa bassa. Dopo così tanti anni passati a dire no, quei profittatori a noi non ci fanno più caso. Lavoriamo con persone di cui ci fidiamo e che speriamo si fidino di noi a loro volta. Non freghiamo, non siamo pigri, non anteponiamo le nostre preoccupazioni a quelle dei ragazzini in prima fila. Tutto il resto sono interferenze, tutto il resto sono solo molecole di bianco e nero che pattinano su bui schermi televisivi.

Come membro di un ensemble di danza di 10 donne, diretto democraticamente, so bene quanto difficile sia trovarsi d’accordo su tutto. Come funzionano i Godspeed in quanto comunità?

Ti si rompe la macchina e la porti in officina. Un ambiente sporco, cinque meccanici forse, le chiavi di avviamento appese a chiodi vicino al banco. Due macchine sul ponte, una in un angolo, tutte le altre parcheggiate sul retro. Tutto e tutti coperti di grasso, tutti fumano come dei pazzi. Devono aggiustare venti macchine entro le 5, altrimenti il lavoro arretrato spezzerà la schiena a tutti prima di natale. I fornitori di ricambi arrivano circa ogni mezz’ora, portando soprattutto nuove pasticche dei freni o i manicotti, ma a volte paraurti, coppe dell’olio, fari o cinghie della distribuzione.

In una buona officina, tutto questo casino quasi crolla tutto il giorno. I tipi litigano e urlano, non funziona niente e tanto che ci stiamo a fare qui? I cazzo di tubi non si adattano, o il cacciavite scivola e tu perdi la fascetta da qualche parte sotto la macchina. Il sole comincia a tramontare e il pavimento si riempie di lampadine fulminate, guarnizioni usate, olio e sudore, e liquido dei freni.

Chi ha un hungover, chi soffre per amore, chi ieri notte non ha dormito, chi si sente sottovalutato, ma quello che conta è farcela, il lavoro è condiviso e c’è una perfetta, rotta poesia nel battere e nel gridare, il gemito del compressore che torna in vita più o meno ogni cinque minuti.

Tutto sembra impossibile. Ma in qualche modo ce la facciamo. Le macchine funzionano di nuovo. Le macchine partono e se ne vanno. Una giornata dura ma è fatta, e tutto ora va bene. Tutto va meglio che bene. Domani ricominceremo tutto da capo. Tu aggiusti la Volvo, io la Toyota. Calore e rumore. Tutto il giorno tutti i giorni, finché non torna la calma. Aggiustiamo automobili finché non moriremo. Ci piace aggiustare automobili.

Quelli come me vi prendono troppo sul serio?

Probabilmente.

*Coleman (NdT)

** Catena di grandi magazzini statunitense (NdT)

Time to move on? Sarebbe pure ora

Su questo noioso e un po’ meschino galleggiare in un brodo culturale continuamente riscaldato da anniversari, beatificazioni ed eterni ritorni, segnalo questo bel pezzo di Jarvis Cocker.

Pezzo in cui recensisce l’epistolario di Lennon, da cui si evince che l’epistolario di Lennon potrebbe forse anche essere tranquillamente depennato dalla lista dei libri da portare su un’isola deserta.

Mi chiedo quanto gli sia costato scriverlo, vista la personale condizione di epigono di una band di cui lui stesso lamenta l’ostinata permanenza nel discorso contemporaneo. Permanenza alla quale, in buona sostanza, la dimenticabile discografia dei Pulp non ha fatto che contribuire.

Blasfemia! Iconoclastia! Eresia!

In questi giorni in cui non si fa altro che parlare dei Beatles io devo fare coming out, confessare il mio relativo disinteresse nei loro riguardi, pur naturalmente frammisto al rispetto (come al salubre sospetto) nei confronti di un’istituzione.

I Beatles sono la vacca sacra del pop, il big bang del rock, la madre di tutte le band e via con immaginifiche metafore. Impossibile mettere in discussione la loro grandezza: e già noiosi per questo. La mia impermeabilità nei loro confronti è un forte argomento a favore della tesi secondo cui la musica che ascolti da giovane diventa un’adorabile zavorra, un abbraccio mortale dal quale non ti liberi più. Lo dimostrano i peana in bilico fra esegesi biblica e idolatria lanciati da colleghi che avevano vent’anni quarant’anni fa. Lo dimostrano i peana in cui talvolta mi lancio io, dedicati a certi loro discendenti. Come Brian Eno, che incontrerò domani e che voglio incontrare da venticinque anni buoni, da quando ascoltavo Another Green World o Before and After Science al ginnasio, letteralmente sognando.

Forse perché tutto quello che considero interessante è venuto dopo di loro, i Beatles. E non essendomi mai confrontato con (o lamentato di) ciò che veniva prima di loro, li ho sempre dati per scontati. Anche oggi, pur non potendo fare a meno di restare imbambolato davanti alla perfezione di così tanti loro pezzi, non mi dicono granché da un punto di vista emotivo, non ho frammenti biografici impigliati nelle maglie delle loro canzoni che mi diano le vertigini quando meno me l’aspetto. E, già che mi trovo in questo improvviso confessionale estetico: non ho nemmeno un loro vinile.

I Beatles sono il Canone, un po’ come i grandi Viennesi romantici, o Bach, per la classica. Ma mentre Bach mi commuove spesso in senso puramente estetico (cioè per la pura bellezza della musica, scevra da qualunque allegato emotivo, biografico, sentimentale) i Beatles non mi commuovono mai. Vuoi perché la musica resta comunque penalizzata dal limite intrinseco della forma canzone, il cui sospetto di banalità resiste a qualsiasi tentativo “intellettualizzante”, vuoi perché, nel mio caso, quest’ultimo aspetto non viene redento da attachments emotivi, biografici, sentimentali.

Mi rendo conto di aver iniziato un discorso che non è possibile finire qui. È solo che la santificazione delle popstar mi ha sempre dato fastidio. Sarà che i Beatles sono uno dei miti fondanti di ciò che siamo diventati. E ciò che siamo diventati non mi piace affatto. E questo post è un sussulto di quel fastidio. Per cui blasfemia, iconoclastia, eresia.

Eric Hobsbawm

Eric Hobsbawm (1917-2012) se n’è andato proprio mentre la Labour conference ospita dibattiti nei quali la nuova guardia del Labour Party (che, a leggere il Guardian, anziché da “vecchi sindacalisti-intellettuali barbuti”, sembra composta da “ricercatori di Harvard”) macella quel poco che resta dell’identità del partito.

Hobsbawm ha rilasciato pochissime interviste in questi ultimi anni, nessuna delle quali, dolorosamente, al sottoscritto; una dopo l’uscita di How To Change the World; l’altra solo pochi mesi fa, all’Espresso.

Con Tristram Hunt

Con Wlodek Goldkorn

Coccodrillo del Guardian

Un intelletto superpotente in meno, uno degli ultimi grandi del Novecento, un’assenza poco riparabile.