Skyfool

L’unico indizio di questo inverno dall’abnorme mitezza sono i venti della guerra fredda, tornati prepotentemente a soffiare fra est e ovest. Dopo gli attriti in Ucraina e sull’intervento militare russo in Siria, le relazioni fra Londra e Mosca — con il potere giudiziario della prima che accusa di probabile omicidio il presidente della seconda – permangono congelati in un mutuo e riluttante abbraccio di realpolitik.

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Lo sforzo del risveglio

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The Farce Awakens. È riuscito Guerre Stellari.

Riuscito in tutti i sensi. I critici sono tutti d’accordo: è un capolavoro, ci sono tutti i pupazzi pelosi dall’espressione profonda di un tempo, più ghiottissime nuove entrate. Dopo quattro prequel e sei sequel, ecco finalmente il tel quel: un film Disney che esce allegato in omaggio ai suoi gadget, fatto per i bonari cinquantenni stanchi della crisi, che rimpiangono gli anni Ottanta, quando tutto sembrava così promettente e c’erano “gli Spandàu.” Un film veramente autarchico, fatto direttamente dal suo fan club per il suo fan club.

La mia generazione, come qualunque altra, si divide infatti in gruppi divisi da incrollabili fedeltà: quelli che adorano Guerre Stellari e quelli che adorano Star Trek, un’altra delle pseudo-diadi della cultura di massa come papato e impero, monarchia e repubblica, Bach e Händel, Chopin e Liszt, Croce e Gentile, comunismo e fascismo, Coca e Pepsi, i Beatles e gli Stones, e – da subito prima e dopo la caduta del muretto -, “gli Spandàu” e i Duran Duran, Rihanna e Beyoncé, Mercedes Benz e Bmw, Bill Gates e Steve Jobs, Berlusconi e Renzi, e potrei naturalmente continuare (solo una è autentica, chi indovina qual’è vince una forcina originale della crocchia della principessa Leia).

Sul dilemma identitario da società affluente innescato da queste due pellicole sono stati scritti fiumi d’autorevole inchiostro e non oso certo aggiungere altro. Ma non posso esimermi dal richiamare alla mente un’importante opera. Tra i grandi picchi della cinematografia di sempre si distingue Balle Spaziali di Mel Brooks, che noi apprendisti intellettualoidi di sinistra snob vedevamo sdraiati su un tappeto di canapa, spaccandoci dalle risate all’immortale sequenza iniziale dell’astronave che non finisce mai.

Guerre Stellari è in realtà un film in costume, un museo del futuro. Niente invecchia come la fantascienza, tutto cambia tranne il futuro, mentre siamo già in attesa del prossimo ancora quel.

Chi aspettava con ansia il ritorno di questo zombi andrebbe murato vivo dentro l’Azzurro Scipioni senza popcorn e smartphone, davanti a uno schermo che eroga spietatamente tutta la filmografia di Haneke non doppiata.

Nomen Omen

fuggire è inutileHo appena visto quel film d’arte sulla circonvenzione d’incapace che è The Master di Paul Thomas Anderson, che è non è dissimile dal precedente There Will Be Blood (entrambi colossali affreschi dalla struttura narrativa slabbrata tenuti autorevolmente in piedi da mostruose interpretazioni: allora quella di Daniel Day Lewis, oggi quelle di Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman).

Il tormentato Joaquin, com’è noto, nasce da genitori hippies. Era fratello del prematuramente scomparso River e poi di Rain, Liberty, e Summer. Con fratelli e sorelle dai nomi simili, è comprensibile che per un periodo, deluso da quello prosaico affibbiatogli dai suoi (forse era un periodo LSD-free), avesse preso a chiamarsi Leaf.

Come siamo cambiati da allora. Oggi i nomi dello zeitgeist contemporaneo sono Chanel, Lexus… A quando una coppia di gemellini di nome “the Markets”?

PS Joaquin, c’è una Nissan che si chiama Leaf. È elettrica, diamine.