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Pangaea-Installations-015Pangaea, alla Saatchi Gallery, su Arte di Maggio.

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Help to exploit

È una delle misure più controverse tra quelle ideate dal governo, e fa parte di un pacchetto di provvedimenti che somiglia più a un attacco ai disoccupati che alla disoccupazione.

Entrato in vigore lunedì, il cosiddetto Help to work – il cui scopo sulla carta sarebbe quello d’incoraggiare i senza lavoro a “darsi da fare” per trovarne uno è, dopo la decurtazione dei sussidi, il fiore all’occhiello della controversa iniziativa lanciata dal governo di coalizione Tory Lib-dem per “aiutare” i disoccupati.

Secondo le nuove regole, che interesseranno circa duecentomila persone, chi è disoccupato da più di due anni e già iscritto all’attuale Work programme perderà i propri sussidi, a meno che non visiti un ufficio di collocamento (il Job Centre) tutti i giorni anziché una volta a settimana, lavori gratuitamente (sic) o frequenti qualche corso di avviamento professionale. Tra le altre attività che ci si aspetta il disoccupato abbracci con entusiasmo figurano la preparazione di pasti e la pulizia e l’assistenza a ospiti in case di riposo e altro presso enti benefici e di recupero. Il tutto per trenta ore settimanali per un periodo fino a sei mesi, più almeno quattro ore di ricerca di lavoro la settimana. Il sussidio di disoccupazione (Jobseeker’s allowance) sarà sospeso per quattro settimane alla prima assenza e per tredici settimane nel caso di una seconda.

Questo coniglio non esce dal cilindro del cancelliere George Osborne, ma è un ben noto (fu introdotto da Nixon negli Stati Uniti) provvedimento alternativo detto workfare (dove work sostituisce il well di welfare) e da noi è meglio noto come lavoro socialmente utile. Una definizione benigna per qualcosa che, una volta cambiato l’angolo visuale, appare nella sua reale entità di lavoro forzato e non retribuito.

Benché il ministro del lavoro McVey si affanni a definirle non punitive, è proprio il sottotesto di vendetta a trasparire da simili iniziative: vendetta nei confronti degli “scrocconi”, figure demonizzate la cui incidenza reale è stata gonfiata con gli estrogeni di un’implacabile campagna mediatica che vede i tabloid (tranne il Daily Mirror, tradizionalmente filo-Labour) sempre solerti in prima linea. E che ormai ha convinto il Paese che molti disoccupati se la spassino per anni a sbafo delle fatiche del virtuoso contribuente. Ecco perché a prescindere dalla sua reale efficacia, il programma gode di buon consenso presso un’opinione pubblica già “cucinata” a dovere.

Secondo la retorica governativa, sarebbe un giusto provvedimento contro quella che i Tories definiscono la cultura del “something for nothing,” rea di aver prodotto una sottoclasse di parassiti. Ma anche a voler sorvolare sull’aberrazione sociale di un simile ragionamento, resta che lo schema pilota, i cui esiti sono stati pubblicati senza fanfara alcuna dal governo, non ne ha affatto esaltato le proprietà taumaturgiche. Su 15.000 partecipanti le percentuali di chi è riuscito a trovare lavoro attraverso Help to work erano infatti più o meno identiche a chi ha invece seguito la procedura tradizionale.

A poco è valsa la levata di scudi della maggior parte degli enti benefici – una trentina, tra cui Oxfam e la Ymca – che in teoria avrebbero dovuto avvalersi di buon grado della manodopera gratuita regalata loro dal governo e che tuttavia ne hanno rigettato il sostrato politico e culturale. Quest’ultimo, che ha vi ha investito 300 milioni di sterline l’anno, ha tirato dritto. Soprattutto ora che le cifre della disoccupazione calano non perché aumenti il lavoro dipendente ma quello autonomo.