Su Exai degli Autechre, con lieve ritardo

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Qui non si tornava da mesi, ed era ora di farlo. No, non voglio (ancora) parlare di malattie, e poi l’ho già fatto in un libro scritto a quattro mani con un amico che uscirà a breve. Ascoltando Sign, l’ultimo degli Autechre – le mie misere considerazioni sul quale il manifesto ha benignamente accettato di pubblicare – mi è risalito il saporaccio di un pezzo su Exai (2013), il loro precedente album, scritto oramai una decina di anni fa, commissionato per una pubblicazione che soprannomineremo Rovista Tedio e che non è mai uscito, forse perché non consono alla cultura di marchetting che ne informa la linea editoriale. Un pezzo cui tenevo e che propongo qui per la prima volta.

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Brain One at seventy

Oggi Brian Eno compie settant’anni. È il postmodernismo in musica e non intende essere necessariamente un complimento. Ha sfornato dischi – altrui come produttore, propri come autore – incredibili, alcuni dei quali ascolto ininterrottamente da più di trent’anni. Il suo capolavoro è Another Green World, un disco di prodigiosa delicatezza e modernità.

Ha fatto anche tanti danni: certa – non tutta – sua musica “per ambienti” è intellettualmente sospetta, produrre  gruppi a metà fra lo stadio e la parrocchia come gli U2 e i Coldplay ha quasi del tutto compensato in negativo l’aver presieduto alla – geniale – metamorfosi berlinese elettronica del Bowie del periodo 77-81, il suo ritorno con David Byrne dopo uno dei dischi più importanti di sempre (My Life in the Bush of Ghosts) è stata una delusione per il qui assente, sono almeno quindici anni che non sforna nulla di dirompente. Eppure è – e resterà – figura chiave per comprendere la musica popolare dagli anni Settanta a oggi.

Lo celebriamo qui nel nostro piccolo con un’intervista fattagli ormai anni fa.

 

 

To Brixton from Mars

Non è ancora un anno che parliamo di David Bowie al passato e già si profila la prima salva postuma di uscite discografiche e teatrali, a ricordarci quanto più povero sia oggi il mondo dei molti che lo amano visceralmente.

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Il canto definitivo del Duca

In mezzo alle mille esegesi sul testo di Blackstar, una cosa diventa chiara come un sole nero: Bowie stava congedandosi da questo primo spicchio di terzo millennio e ci stava lasciando il suo canto del cigno, anzi del duca. Forse ora sta nella stessa casa di riposo iperspaziale dove già alberga Lennon, col quale interpretò Fame, e dove senza dubbio andrà anche Dylan. E magari da lì guarda sgomento il mondo che ha contribuito a confondere. La sua dipartita coincide infatti con un momento di sfarinamento dell’occidente, in cui la rinuncia della postmodernità a voler prendere posizione sul mondo gli si ritorce contro con terribilità biblica. Tanto che inizialmente i riferimenti che si volevano trovare in Blackstar erano all’Isis e ai suoi massacri premoderni.

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60 (per) CENT

Tutto il potere a Jeremy Ber­nard Cor­byn: la base del par­tito ha par­lato quasi all’unisono, e ad alta voce. Con un’assordante mag­gio­ranza del 59,5 % delle pre­fe­renze ha eletto al primo turno un ses­san­ta­seienne che per 32 anni – dal 1983 – ha ser­vito dalle retro­vie della sini­stra socia­li­sta votando quasi rego­lar­mente con­tro la linea uffi­ciale. Il suo vice sarà Tom Watson, classe 1967, di Shef­field, un moder­niz­za­tore esperto in comu­ni­ca­zione digi­tale e impla­ca­bile nemico della stampa di Murdoch.

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XI

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A che somiglia di più la cultura pop di questi anni? A una vecchia autoradio incantata in autoreverse, a un antico romano sul triclinio che rigurgita lo stesso banchetto, oppure a un giovane struzzo con la testa sotto la stessa sabbia? Continue reading “XI”

Bowie, tonight

a lad insaneDavid Bowie è stato un idolo dei miei teenage years. Nel secolo scorso marinai il liceo per andare alla conferenza stampa che fece, mi pare al Piper, in occasione del Glass Spider Tour, il (purtroppo brutto) tour del (purtroppo altrettanto brutto, uno dei suoi peggiori) album della carriera del Duca bianco, Never let me down.

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Jurassic instant classic

Soffro di una bizzarra forma di semi-autismo che mi porta a fare certe cose (in tempi recenti: guidare l’automobile per giorni, andare in bicicletta per ore, correre, collezionare amplificatori e casse acustiche d’epoca) in maniera coatta, ripetitiva e continua, forse perché intravedo, cattolicamente, il profilo della redenzione nell’espiazione attraverso – appunto -, la ripetizione prolungata di un atto o di uno sforzo. O forse perché attraverso detta ripetizione prolungata perseguo l’alterazione e l’inebriamento, come quei bambini che girano su se stessi come dei piccoli Sufi. Potrebbe anche essere perché non ho figli.

Non è per dischiudere una prospettiva sul mio inutile privato, quanto per contestualizzare il fatto che sono quattro giorni che ascolto esclusivamente ed ininterrottamente The Hunter. The Hunter nella Volvo, The Hunter a casa, The Hunter in cuffia correndo, in cuffia camminando, The Hunter in ascensore, per le scale, al mercato, The Hunter di giorno, The Hunter di notte. Non avevo una fissa simile dai tempi in cui passavo i pomeriggi a fissare la copertina di Pinups di Bowie nel 1979.

Gli è che, a voler a tutti i costi citare l’impoetico magistero di Claudio Baglioni, in questo periodo scatologico che sto attraversando, The Hunter, ultimo misfatto degli ultrametallers Mastodon, è il mio gancio in mezzo al cielo; o meglio, è il gancio da macellaio al quale appendere quel quarto di bue a cui al momento somiglia detto mio privato; no, è un maledetto virus di un album, un colossale forziere stracolmo di riff e ganci venefici, sostenuto da quel patrimonio dell’umanità di batterista che è Brann Dailor (che qui sale a vertici mai raggiunti fino adesso), dalle grattugiate simil-banjistiche di Brent Hinds e Bill Kelliher e dalle epiche voci soliste di Hinds e Troy Sanders, il bassista.

Che sia piovuto dall’oscurità impenetrabile dell’universo o dalle viscere urlanti di lava dell’oltretomba geologico, partorito da un grifone fiammeggiante, da una lupa carca nella sua magrezza o da una copula concettuale fra l’Iliade e gli Slayer, poco importa: TH è tra gli ascolti più esaltanti che abbia fatto negli ultimi anni.

Ma prima di venire al dunque di quello che il disco è e significa per me, ci tengo a mettere preliminarmente una cosa in chiaro (e qui mi ripeto, chi se n’è accorto mi scusi): che una grossa – la maggiore -, fetta di consumatori di musica consideri la musica estrema come una degenerazione sonica e attitudinale di una subcultura specifica (punk, metal e quant’altro) dimostra, a parte la naturale questione di gusto estetico e tolleranza ai decibel, una preoccupante miopia: ormai sempre più spesso è proprio la musica estrema, e proprio perché tale, a dimostrare di avere al suo interno un sano tasso di spontaneità e creatività, ormai sconosciuto al pop, all’indie e che mi pare sia in preoccupante calo nell’hip-hop. Lo dimostra questo lavoro del quartetto di Atlanta: se ancora esiste, il vero folk anglosassone di oggi non si trova nelle pur garbate flânerie acustiche dei tremila gruppi con la barba e la camicia fuori dei pantaloni (spesso esponenti di una middle class capace di guardare al passato e di assimilarne le lezioni) ma proprio in questa stessa musica estrema, che solo per convenienza e sbrigatività ci limiteremo a definire metal: non a caso, tra le influenze della band il country figura in modo massiccio.

Diciamolo subito, secondo gli standard dei fedeli della chiesa della band di Atlanta si tratta di un disco decisamente “commerciale”. Niente tematiche storico-mitologiche, niente concept, niente pezzi di quattordici minuti con sessantacinque cambi di tempo, poche voci vomitate dalle interiora sulfuree dell’inferno. Nondimeno, è un disco mostruoso.

Già, perché tutto, nei/dei Mastodon, è mostruoso. La tecnica, gli staccato, la velocità di esecuzione, i suoni, la batteria, l’aspetto fisico (Brent Hind sembra un ossesso Nettuno con pezzi di gomene sfilacciate incastrati nella barba, un Laocoonte che lotta asfissiato contro i suoi incredibili tatuaggi), le copertine (fantastici animali polimorfi feriti a morte, denti affilati, froge fumanti, palchi di corna, artigli, occhi iniettati di odio e terrore). Sono un gruppo così sfacciatamente superiore ai loro pari (di ogni genere di musica) da rendere il paragone con molti imbarazzante. Provengono dal regno della musica estrema, una musica genericamente definita come metal, ma di quel genere – il metal -, sono chiaramente i seppellitori, avendone, proprio con questo disco, sancito il definitivo superamento, dimostrando che da quella piattaforma si possono visitare svariati generi (speed/classic/ death metal, country/bluegrass, progressive, anche alternative rock – basti pensare alla sghemba “Creature Lives”, chiaramente indebitata ai Pink Floyd di l’altroieri come agli Animal Collective di oggi), dando loro foga e spessore parossistici.

Dopo l’inutile (non l’ho nemmeno ascoltato e lo proclamo con morettiana arroganza) disco dei Red Hot Chilli Peppers (se conoscete qualcuno che meriti la palma di gruppo più spettacolarmente lontano dallo zeitgeist contemporaneo, ditemelo), i Mastodon tirano fuori un monumento che li introduce definitivamente nella superstardom. Perché The Hunter è esattamente l’opposto del disco dei RHCP: è lo stato di grazia di una band al culmine delle proprie energie creative, che gli farà compiere il salto nel mainstream. Comunque, siamo qui non per commentare le scelte dadaiste di certa stampa musicale italiana, bensì per apprezzare appieno il significato che l’uscita di un album come questo può avere per le nostre vite.

The Hunter scintilla di creatività e di gioia di suonare. Contrariamente ai quattro album-menhir precedenti, sorta di poemi epici suonati a breakneck speed, l’album non è concept (i precedenti avevano visitato gli elementi empedoclei di aria acqua, terra e fuoco); tuttavia restano le maestose cattedrali gotiche di staccato, cambi di tempo e gargolle solistiche a fare di questo disco un possente prontuario di come dovrebbe essere la musica oggi: rabbiosa, precisa, veloce, epica, introspettiva, luminosa. È un disco che rivisita e rifonda in un’architettura potentissima tutto l’obsolescente canone rock senza rigurgitarlo stancamente, come ormai siamo abituati da un quindicennio buono, se non da prima. È un disco al momento qualitativamente irraggiungibile da chiunque, la dimostrazione che una band al massimo della propria felicità compositiva può fare quello che vuole: mandare in pensione definitivamente Metallica e Slayer, certo (pur nel rispetto della lezione dei maestri), ma anche QOTSA e Tool, Foo Fighters e tutto quel bandwagon stracarico di epigoni dei Led Zeppelin. Di più, facendo un disco che piacerà a chiunque, tanto è buono, che non mancherà di allargarsi alle platee di massa, che sarà citato e tenuto presente da artisti pop ovunque.

Perché questo, ricordiamoci, è il disco “pop” dei Mastodon, dove si canta di più e si urla di meno, dove i brani hanno degli hooks infettivi, dei passaggi strumentali di struggente meraviglia, dove le tracce durano tutte meno di sei minuti, dove non si parla di struzzi ectoplasmatici dislessici (vedi Crack the Skye) e dove Brann Dailor diventa la rappresentazione più fedele della bellezza dell’umano gesto musicale, imbottendo ogni spiraglio libero dei brani con quel rullante (che usa meglio di qualunque altro batterista rock) quei tom e quei piatti implacabili, dove i suoni sono aperti e croccanti. Sembra quasi un disco di cover “mastodonizzate”, una collezione di classici rivisitati; e dove a tratti spunta anche la gioia: come nella per me s-u-p-e-r-l-a-t-i-v-a “Octopus has no friends”, ad esempio. Dove il senso della tragedia violenta dell’esistenza (“The Hunter”, “All the heavy lifting”) quasi ipocritamente espunto dalla musica popolare come per paura di mettere in crisi l’egemonia democratico liberale che garantisce la pace interna col disseminare orrore esterno, viene proclamato in tutta la sua drammaticità e icasticità: è anche così che questa diviene autentica, seppur inconsapevole, musica popolare. Aggiungete la fatica, l’esercizio, gli innumerevoli concerti, la cura artigianale della tecnica e si capisce come questa band assurgerà ora ai massimi vertici, forse anche radiofonici. Perché hanno alzato la barra con la quale dovranno confrontarsi negli anni a venire tutti coloro che suonano musica, che sia estrema oppure no. E, per rimanere ai primi, la pietra di paragone sarà il climax di tensione e forza di “All the heavy lifting”, sostenuto dalla vertiginosa doppia cassa di Dailor:

We didn’t come this far
Just to turn around
We didn’t come this far
Just to run away

A una cosa del genere, intensa quanto un’ouverture di Wagner, io mi ci aggrappo. Con le unghie e con i denti.

Ora che i REM si sono finalmente consegnati, benché in modo criminosamente tardivo, alla storia, la Georgia ci ha donato il quinto album di un altro suo gruppo fondamentale. Onde per cui, non fatevi spaventare da volume, pesantezza e velocità: mai come in questo caso sono stati messi al servizio di leggiadria e immediatezza. Un macigno, certo, ma con ali di farfalla.