Tony Bennett 1926-2023

Un paio di mie interviste con il crooner per eccellenza, che ha lasciato oggi questa valle di fuoco, grandine e lacrime. (I titoli mancano perché ovviamente non li mettevo io e da smooth operator quale sono sempre stato non mi sono fatto dare i .pdf.)

Tony Bennett non è esattamente un nome che affolla i vostri ricordi. Ma affolla quelli dei vostri genitori, statene certi. Da quando Sinatra “has left the building”, è rimasto lui, Tony, ottant’anni portati con grazia, a rappresentare l’arte del cantare standard, con la sua italonewyorkesità schietta e affabile. Tony parla con accento del Queens, quello di Goodfellas, per intenderci: è infatti nato ad Astoria, Queens, NYC. Scoperto da Bob Hope, ha avuto una carriera luminosa, anche grazie all’aiuto di un ammiratore d’eccezione, Sinatra. La sua è stata una parabola di successi (è anche un affermato pittore) che hanno segnato la cultura popolare americana del secondo dopoguerra. Ha un prestigio tale che a festeggiare l’ottuagenario crooner è accorso un manipolo di superstar a duettare con lui in “Tony Bennett Duets An American Classic”. E sapete una cosa? Che siano Sting o McCartney, Bono o Costello, George Michael o Elton John, dal confronto con Bennett escono tutti un po’ malconci: gli unici che gli tengono testa sono i veri cantanti: Stevie Wonder e Barbra Streisand. Lo incontriamo in una suite del Dorchester, la stessa dove siamo cresciuti, cosa che rende il tutto meno inibente. Verrebbe da chiamarlo “maestro”, come si fa coi musicisti classici.

Mr Bennett, solo venti minuti e tante cose da chiedere…

«Se non riesci a raccontarti in venti minuti vuol dire che hai dei problemi!» (ride)

Questo album ha voluto registrarlo dal vivo. Una cosa a cui lei è abituato, forse i suoi colleghi un po’ meno… Crede di averli imbarazzati?

«No di certo. Ma non potevano credere che facessi tutto in tre o quattro prove. Quando gli dicevo “Questa va bene”, di solito alla terza prova, mi dicevano “Ma sei sicuro?”, perché di solito oggi ci vogliono settimane prima di accontentarsi del risultato. Io cerco sempre di creare una spontaneità che sia vicina alla performance live. Non riuscivano a farsene una ragione. Continuavano a chiedermi “Ma vuoi davvero registrare così?” – “Certo!”, rispondevo. Se si ripete il pezzo dieci volte si appiattisce tutto, i musicisti poi si annoiano, e poi si sente nel risultato finale».

Quale dei duetti l’ha emozionata di più?

«Ce ne sono stati un paio, quello con Barbra Streisand è stato stupendo, ma quello che mi ha davvero commosso è stato con Stevie Wonder. A ottant’anni di età non puoi non avere un opinione diretta su quello che è buono e quello che non lo è».

Ne ha il diritto.

«Quello che mi ha sorpreso è che ciascuno di questi artisti si è preparato scrupolosamente. Per me è stata una delizia cantare con loro, anziché brontolare “Ah, la scena non è più quella di una volta!” Sono degli artisti ormai istituzionali, che non saranno di certo dimenticati fra tre o quattro anni».

Lei fu scoperto da Bob Hope. Che come un altro grande, Frank Sinatra, ha svolto un ruolo importante per lei.

«Era appena finita la guerra, mi esibivo nel Village con Pearl Bailey ed ero l’unico bianco in uno show con tutti artisti afroamericani: Bob era venuto per vedere Pearl e si entusiasmò per me. All’epoca avevo un nome d’arte, Joe Bari. Bob mi disse: “Andiamo, quella è una città italiana, cambiamolo! Qual’è il tuo vero nome?” “Anthony Dominick Benedetto”. E lui: “È troppo lungo per il marquee (la pensilina su cui si scrive il nome dell’artista, NdR)”. “Lo possiamo americanizzare: ti chiamerai Tony Bennett”. E da allora quando canto sono Tony Bennett; quando dipingo sono Benedetto».

Sinatra. Diede un’intervista a Life nel 1965 dove disse che lei era il suo cantante preferito.

«Mi cambiò la vita».

Ma non era già famoso?

«No, ero ancora agli inizi. Avevo venduto un paio di milioni di dischi all’epoca. Ma lui fece questa dichiarazione e tutti i suoi fan dissero: “Ascoltiamo questo Bennett, vediamo se Frank ha ragione”. Da allora è veramente cominciato il mio successo mondiale».

Qual’era il suo rapporto con Sinatra l’uomo?

«Il Ratpack era in California, io stavo a New York. Ma diventammo amici molto stretti. Non me lo ha mai detto personalmente ma al suo entourage diceva: “Se mai avessi avuto un fratello mi sarebbe piaciuto fosse Tony Bennett”».

Facevate baldoria assieme? Erano anni di grande edonismo…

«Veramente no, ci siamo visti poche volte. Era un uomo pieno d’entusiasmo: Sinatra era uno che sinceramente amava gli altri artisti. Quelli che stimava li ha sempre sostenuti, fossero cantanti o attori. Per questo la scuola che ho aperto nel quartiere della mia infanzia a NYC, Astoria, porta il suo nome».

Lei è un democratico e un progressista. Crede che sia ancora importante usare il proprio peso, prestigio e fama a sostegno di cause sociali e politiche?

«Una volta ho incontrato Pablo Casals: lui e Picasso dovettero scappare dalla Spagna durante la dittatura franchista. Entrambi pensavano che sarebbero tornati alla morte di Franco. Mi trovavo in Portorico e gli chiesi se voleva incontrarmi. Lui non mi conosceva sapeva solo che ero un cantante pop».

Fu gentile con lei?

«Moltissimo: mi disse “Sa chi è il più importante artista contemporaneo americano? Harry Belafonte”, che era un mio amico. Gli chiesi perché. “Perché ha umili origini. E quando uno come lui diventa famoso deve raccontare alla gente le difficoltà e le ingiustizie sociali che ha dovuto soffrire.” Per questo è molto importante dare voce, prendere posizione. Per cercare di migliorare il mondo per quanto possibile. Per questo credo che uno come Bono stia facendo un lavoro fantastico. Combattere la povertà mondiale è un primo passo per eliminare la guerra: era il sogno di Abramo Lincoln e nessuno ha cercato ancora di realizzarlo».

(Rockstar, dicembre 2006)

Tony Bennett è un gentiluomo d’altri tempi. Il leggendario “crooner” la cui voce suadente ha accompagnato l’America e il mondo dal secondo dopoguerra ad oggi, ha appena compiuto ottant’anni e li ha celebrati con un disco di duetti che antologizza i massimi nomi mondiali del pop. Da Paul McCartney a Stevie Wonder, da Billy Joel a Barbra Streisand, passando per Sting, Bono, George Michael e Elton John sono molti i pesi massimi accorsi a rendergli omaggio. È raro che un solo artista riesca a mobilitare simili collaborazioni in un unico disco. Ma non per il figlio d’immigrati calabresi Anthony Dominick Benedetto (Benedetto è il nome che adotta per l’altra sua passione: la pittura), che scoperto da Bob Hope e amico personale di Sinatra, ha saputo restare sulla cresta dell’onda per quarant’anni. Oggi è a Londra a presentare “Tony Bennett Duets An American Classic”: lo abbiamo incontrato al Dorchester Hotel.

Mr Bennett, un album che riassume una carriera straordinaria, con alcuni tra gli artisti più famosi del mondo: cos’ha significato per lei?

«Una splendida esperienza. Abbiamo anche registrato uno show televisivo davvero bello, che verrà trasmesso in tutto il mondo, con Barbra Streisand, Stevie Wonder, kd lang, Diana Krall. È il primo musical pensato per la televisione, ma girato come un film. C’è voluto un mese per registrarlo con ciascun artista. È diretto da Rob Marshall che è il “Fellini” degli Usa al momento, ha già avuto due nominations di seguito all’Oscar per Chicago e Memories Of a Geisha. Ha fatto uno splendido lavoro».

Ogni canzone di quest’album è un classico, un capitolo a parte. Come ha abbinato le canzoni agli artisti?

Ho contribuito a fissare The Great American Songbook, le 35 canzoni che sono entrate a far parte del patrimonio nazionale. Abbiamo dato 4 canzoni a ciascun artista e loro hanno scelto quella che preferivano. I duetti che amo di più sono quello con Barbra Streisand (“Smile”) e quello con Stevie Wonder (“For Once in My Life”).

Lei ha avuto una vita e una carriera straordinaria, ha sofferto dei momenti di declino, ma è riuscito a reagire, a tornare e a conquistare un pubblico del tutto nuovo senza tradire il suo stile. Come ha fatto?

Grazie a una cosa inventata dagli italiani. Si chiama “bel canto”. È una questione di disciplina. Basta esercitare la voce tutti i giorni, così da sentirsi centrati. Tutti le critiche dal mondo intero dicono che non ho mai cantato meglio, e ho ottant’anni! Il belcanto è per i cosiddetti upper singers, cantanti le cui voci hanno un alto registro e un arco temporale breve perché raggiunti i 35 anni d’età cambiano. Ma dato che io ho sempre usato un microfono, come tutti i cantanti pop, non ho mai dovuto spingere la voce. Come il grande Di Stefano, uno dei massimi cantanti d’opera, e il preferito di Pavarotti, che aveva un orecchio fenomenale, l’equivalente di Sinatra nel pop, che continuò a cantare fino a sessantacinque anni ed era mantenendosi allo stesso livello di quando ne aveva trenta: perché ha saputo non spingere troppo.

Fellini, Di Stefano, Pavarotti: lei ha un debole per l’Italia.

Ho un’ammirazione sconfinata per l’Italia e vorrei che tutto il mondo avesse la cultura e la filosofia degli italiani. In America sono sempre rappresentati attraverso i loro lati negativi, mafia, malavita, The Sopranos, Il padrino… Con tutto il rispetto per gli attori straordinari di quel film e il suo regista, Coppola, mi sono sempre risentito per l’immagine che si ha in America dell’Italia. Io so, dal basso della mia piccola cultura, che l’Italia ha prodotto una cinquantina di geni. Cinquanta. È un primato unico. E amo il concetto di “sprezzatura” l’arte dell’essere eleganti senza sforzo, sia che si indossi un maglione o una giacca, o che si disegni un aeroplano o un’automobile. Se c’è una competizione, gli italiani vincono. Mi piacerebbe che il resto del mondo fosse così.

Ma lei è soprattutto un’icona della cultura americana contemporanea. Avrebbe voluto avere un rapporto più stretto con l’Italia, professionalmente?

Si. Sono cresciuto durante la depressione, mio padre era un emigrato della Calabria, arrivato con 35 dollari in tasca. Erano tempi durissimi. Morì quando avevo dieci anni. La leggenda della mia famiglia vuole che quando cantava dall’alto di una collina di Podargoni, il suo paese, la sua voce echeggiasse in tutta la valle. E quello fu per me una formidabile ispirazione e carica verso il canto e la musica: per questo amo tutto quello che ha a che vedere con l’Italia.

Guardandomi indietro – anche se è una cosa che non mi piace fare, cerco sempre di pensare al futuro – non posso farne a meno di riconoscere che è solo grazie alla mia famiglia se ho saputo sviluppare la passione che mi fa dipingere e cantare ogni giorno. E non ho ancora finito, sa? Ho ottant’anni e ancora molto da imparare.

(La Repubblica, 11/2006)