Gran Bretagna 01/01/0000

La festa Brexit venerdì sera a Londra; in basso la protesta di Led by Donkeys

Ieri era il giorno uno dell’anno zero della Gran Bretagna “post”-Brexit. Il momento, ugualmente agognato e temuto da quattro anni, che ha richiesto tre primi ministri, due tornate elettorali, infinite negoziazioni, è alfine venuto venerdì sera alla mezzanotte, ora di Bruxelles.

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Donald Sassoon: i tempi di Thatcher e Blair sono finiti

Donald Sassoon è professore emerito di storia europea comparata al Queen Mary College, University of London. Il suo ultimo libro è Sintomi Morbosi, edito da Garzanti.

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La carriera solista

Tradizione vuole che dopo molti anni di rapporti travagliati nella band, il cantante/chitarrista – sovente l’ego più grosso – lasci per iniziare un’ambiziosa carriera solista. È quello che è successo ieri sera a mezzanotte, ora di Bruxelles: come John Frusciante dai Red Hot Chili Peppers, la Gran Bretagna è uscita dall’Unione Europea. Dopo quarantasette anni di dischi e tour assieme è la cerimonia degli addii.

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Niente Erasmus, siamo inglesi

Londra, proteste degli studenti Erasmus

L’elogio della follia tessuto nella Gran Bretagna dell’era Brexit fa la sua prima illustre vittima. Il progetto omonimo, l’ormai leggendario programma d’interscambio accademico che continua a formare generazioni di studenti europei offrendo loro un’indispensabile esperienza di studio e ricerca in un Paese altro da quello di provenienza, scompare dall’orizzonte degli studenti britannici.

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Hard Rock Brexit

Boris Johnson ieri in parlamento

Il risveglio è peggio dell’incubo. L’accordo di uscita targato Boris Johnson che finalmente anima il golem Brexit è stato votato ieri pomeriggio dal parlamento britannico con una maggioranza massiccia e definitiva di 124 voti (358 a 234). Da un parlamento tutto nuovo, epurato di remainer multipartisan sostituiti da un’armata di neodeputati conservatori che, espugnando le roccaforti ex rosse del nord, ha riscritto la storia sociale del paese.

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Cronaca postuma di una catastrofe IV

Jeremy Corbyn

Dopo i saluti, le scuse. It’s sorry time, mentre il prossimo 7 gennaio si riapre la corsa alla leadership Labour. Dalle colonne dell’unico Daily a lui non ostile e che flirta a capo scoperto con la leggibilità, il Mirror, domenica Jeremy Corbyn ha vergato di suo pugno una richiesta di perdono. I quasi sessanta seggi persi nel nord, prossimi ad accogliere i neodeputati conservatori scesi in massa ieri a Londra per installarvisi, glielo imponevano.

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Cronaca postuma di una catastrofe III

Proprio perché la vittoria di Brexit Johnson eccede qualsiasi metafora, andando casomai ad aggiungere anabolizzanti alla sua già dopata vanagloria, il premier è andato ieri nel Nordest ex-rosso a ringraziare per l’assegno in bianco che gli hanno firmato: una maggioranza di 80 seggi con la quale si appresta a cambiare il nome del paese in United Brexitdom.

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Cronaca postuma di una catastrofe II

Queste sono state elezioni politiche solo sulla carta. In realtà erano il secondo referendum, tanto invocato dalle élite liberal cosmo-metropolitane. Che è stato perduto come e peggio del primo, riaffermando la volontà del leave nel modo più netto possibile.

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Cronaca postuma di una catastrofe I

«Ho fatto tutto quello che ho potuto per guidare il partito… da quando sono diventato leader gli iscritti sono più che raddoppiati e il Labour ha proposto un manifesto serio, radicale, sì, ma molto serio e completo di costi». È puerile aspettarsi che le lame in attesa di affettare la carne vegetariana di Jeremy Corbyn si accontentino di una simile autodifesa. Ha lasciato intendere che se ne andrà all’inizio dell’anno, ma le urla perché lo faccia “ieri” sono già assordanti.

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