Corporate Protopop

All’inizio degli anni Novanta ascoltavo molta roba rumorosa, più o meno come adesso.

La musica proveniente dagli USA dominava, soprattutto quella di Seattle. Non posso dire che non ascoltassi il grunge, anche se non mai posseduto un album dei Nirvana (la mia copia de poche di Nevermind apparteneva alla mia fidanzata di allora). Dei Nirvana ho sempre riconosciuto la missione storica ed economica (rendere l’attitudine punk appetibile al mainstream)  ma la cristologia di Cobain mi ha sempre lasciato freddino.

Tutto sommato, preferivo Alice in Chains e Soundgarden, li trovavo musicalmente più interessanti. la California ancora teneva, con Faith No More e Chili Peppers (questi ultimi ancora inspiegabilmente in giro). I Metallica erano da poco diventati un mostro, l’Air Force One del metal. Ma il barometro stava cambiando. Figuriamoci: ancora un poco e da questa parte dell’Atlantico sarebbe dilagata la spocchiosa manfrina del britpop. Aiuto.

Ma anche allora guardavo a New York come epicentro della musica che valeva la pena di seguire. A New York, madre della No Wave, di Suicide, Sonic Youth e dei miei venerati Swans, e dei Prong, the most underrated band in metal (i loro Cleansing e Rude Awakening sono due montagne di piombo fuso). La New York degli Helmet, band dal suono che era un incrocio fra un rasoio e una mazza (un’accetta?).

Nessuna città produce punk e derivati come New York, con la stessa cattiveria e cinismo, con la stessa lucida spietatezza, lo stesso ghigno intelligente.

E da New York proveniva questo fuoco fatuo di band, i Cop Shoot Cop. Figli della No Wave, influenzati pesantemente da Foetus e Swans, avevano una struttura “avantgarde”, senza chitarra: tutto agganciato a campionamenti, a due bassi e una batteria che impostavano staccato brucianti su cui il cantante, Tod A, rovesciava la sua dialettica al vetriolo. Anche un uso dei fiati avevano, interessante. E qualche pezzo notevole, soprattutto nei primi tre album: Consumer Revolt, White Noise e Ask Questions Later.

Registravano nel mitico studio BC di Brooklyn, erano prodotti da Martin Bisi, figura chiave di quel suono. Erano industrial, eppure biologici: avevano un’ironia sconosciuta al genere. Li vidi al Circolo degli Artisti a Roma e mi scalmanai parecchio. Un caos, quel concerto. Molto intenso. Ma la ragione per cui sto scrivendo dei Cop Shoot Cop non è certo la musica, nè per l’amarcord di un old dog che si commuove per un antico pogo dietro Piazza Vittorio.

Mi sono tornati in mente perché i riots di due settimane fa qui a Londra non sono altro che una Consumer Revolt, l’assalto di un esercito urbano di adolescenti inselvatichiti dalla frenesia repressa di consumare, repressa perché impedita dalla povertà.

Poi ho riascoltato White Noise. E sono inciampato in questo:

Che è senz’altro qualcosa in più del solito “fuck the government” ripetuto ad nauseam da una generazione di incendiari pronti a indossare la divisa da pompiere al primo cospicuo assegno. E’ una provocazione, certo, ma così vicina ai fatti, a ciò che siamo. Tutti noi, non solo gli Stati Uniti.

I CSC non ressero, non avevano un repertorio sufficiente. Ma non meritano l’oblio completo. Vi lascio con il loro pezzo mio preferito: “All the Clocks are Broken”, da Ask Question Later: quando la fecero, il Circolo venne letteralmente giù.

Fight for a fucking cause

La situazione sta rientrando nella normalità, la parabola della violenza è ormai compiuta. Si raccolgono i cocci delle cose: quelli delle vite, perdute davvero o metaforicamente, non si possono raccogliere.

Se c’è un immagine che parla di questo disastro meglio di quella delle macerie, è quella di questa donna straordinaria, che nel mezzo dell’inferno che era Hackney in quei momenti ha dato voce al dramma del suicidio sociale e politico di una generazione, schiacciata fra coltelli, nike, playstation e blackberry.

Ha un qualcosa di epico e allo stesso tempo profondamente toccante, l’invettiva di questa donna. E’ un grido di rabbia e dolore, il suo, che si riallaccia alla rabbia e al dolore del blues più autentico e antico, passando attraverso la lotta per i civil rights dei neri americani. E’ la rappresentazione potente e drammatica di una sconfitta. Mi aspetto di sentirla campionata presto in qualcuno dei mille brani ancora da scrivere che tutto questo sta indubbiamente ispirando.

Dead Kennedys – Riot

Naturalmente, tutto il primo strepitoso disco dei Clash parla di quello che e’ successo qui a Londra. Ci sono differenze fondamentali fra questi riots e quelli di venticinque anni fa, ma le atmosfere descritte in quel folgorante esordio, teso, nervoso, nodoso, sono le stesse.

A molti viene da associare l’accaduto con “Anarchy in the Uk”, dei Pistols, ma non e’ un paragone abbastanza calzante, secondo me. E “London’s Burning”  non e’ un pezzo sui riots, quanto sulla noia e l’alienazione che portano alla violenza, uno stadio precedente. Pezzi che parlano dell’esperienza conclamata della violenza sono “Police and Thieves”, qui sotto, “Cheat”, “Remote Control” e, naturalmente, “White Riot”.

Ma il brano che descrive meglio di qualunque altro quello che sta succedendo qui in questi giorni – se non altro per via della descrizione scientifica delle sensazioni di esaltazione date dal distruggere le cose degli altri –  viene dai massimi Dead Kennedys e s’intitola, lapidariamente, “Riot”. Fa sembrare i Clash un gruppo quasi romantico, tanto ruvida, vuota e irredimibile e’ la violenza qui descritta. Perche’ questi riots hanno molto piu’ a che vedere con i disordini descritti dall’hardcore americano, da sempre depoliticizzato, che con quello londinese degli anni della Thatcher. Se questo brano eccezionale ha un “messaggio” (parola da talent show) e’ proprio quello dell’inutilita’ politica della violenza, anche quando sembri equivocamente esaltarne le caratteristiche.

Ho gia’ postato questo video in passato in occasione delle rivolte studentesche dei mesi scorsi, a cui tra l’altro si riferiscono alcune delle immagini montate con questo video, ma credo che vada riproposto, anche solo per via della performance di Jello Biafra, by far the most intelligent man in Hardcore Punk. L’aggettivo “viscerale” non le rende giustizia.

Rioting-the unbeatable high

Adrenalin shoots your nerves to the sky
Everyone knows this town is gonna blow
And it’s all gonna blow right now:.

Now you can smash all the windows that you want
All you really need are some friends and a rock
Throwing a brick never felt so damn good
Smash more glass
Scream with a laugh
And wallow with the crowds
Watch them kicking peoples’ ass

But you get to the place
Where the real slavedrivers live
It’s walled off by the riot squad
Aiming guns right at your head
So you turn right around
And play right into their hands
And set your own neighbourhood
Burning to the ground instead

[Chorus]
Riot-the unbeatable high
Riot-shoots your nerves to the sky
Riot-playing into their hands
Tomorrow you’re homeless
Tonight it’s a blast

Get your kicks in quick
They’re callin’ the national guard
Now could be your only chance
To torch a police car

Climb the roof, kick the siren in
And jump and yelp for joy
Quickly-dive back in the crowd
Slip away, now don’t get caught

Let’s loot the spiffy hi-fi store
Grab as much as you can hold
Pray your full arms don’t fall off
Here comes the owner with a gun

[Chorus]

The barricades spring up from nowhere
Cops in helmets line the lines
Shotguns prod into your bellies
The trigger fingers want an excuse
Now

The raging mob has lost its nerve
There’s more of us but who goes first
No one dares to cross the line
The cops know that they’ve won

It’s all over but not quite
The pigs have just begun to fight
They club your heads, kick your teeth
Police can riot all that they please

[Chorus]

Tomorrow you’re homeless
Tonight it’s a blast

Police and Thieves

in the streets.

Police and thieves in the streets

Oh yeah!

Scaring the nation with their guns and ammunition
Police and thieves in the street
Oh yeah!
Fighting the nation with their guns and ammunition

From Genesis to Revelation
The next generation will be hear me
From Genesis to Revelation
The next generation will be hear me

And all the crowd come in day by day
No one stop it in anyway
All the peacemaker turn war officer
Hear what I sayPolice and thieves in the streets
Oh yeah!
Scaring the nation with their guns and ammunition
Police and thieves in the street
Oh yeah!
Fighting the nation with their guns and ammunition
From Genesis to Revelation
The next generation will be hear me

And all the crowd come in day by day

No one stop it in anyway
All the peacemaker turn war officer
Hear what I say

Police, police, police and thieves oh yeah

Police, police, police and thieves oh yeah
From Genesis oh yeah
Police, police, police and thieves oh yeah

Scaring and fighting the nation, oh yeah
Shooting, shooting their guns and – guns and ammunition

Police, police, police and thieves oh yeah
Scarin’, oh yeah
Scarin’ the nation, oh yeah

Police, police, police and thieves oh yeah

Here come, here come, here come
The station is bombed
Get out get out get out you people
If you don’t wanna get blown up

(il pezzo e’ un classico reggae di Junior Murvin)

London’s burning

Benvenuti a Londra, città delle prossime Olimpiadi, dove atleti di tutto il mondo si confronteranno lealmente nel nome dello sport e della fratellanza fra i loghi (Tutti i property developers che hanno investito milioni rischiano di rimanere fottuti).

Benvenuti a Londra, che negli anni Novanta era di nuovo swinging, la città dove non c’è disoccupazione, dove vige un tasso accettabile di tolleranza della diversità, la città dove ci sono mille concerti, dove i bar sono disegnati dagli architetti, dove il nulla viene elevato a forma, se non d’arte, di profitto. Benvenuti nella Londra delle avanguardie, delle fiere d’arte, delle inaugurazioni delle mostre, nella Londra di London Fields, delle fanzine disegnate per l’Ipad, rifugio per i rifugiati, caveau per i ricchi, mercato per i mercanti, cuore pulsante di una finanza in preda a un improvviso attacco d’asma, la città su cui campano le redazioni cultura dei giornali di mezzo mondo, compreso chi scrive.

Quello che sta succedendo qui e in altre città di questo paese forse ha raggiunto il climax, forse no. C’è di sicuro da augurarsi che lo abbia. La furia devastatrice e arraffatrice che ha contraddistinto la terza notte di scontri non solo è cieca, è anche muta. Non sa articolare un motivo altro che il prendersi quello che non le viene dato, sullo sfondo di un futuro senza futuro, prospettive, di una realtà quotidiana nel segno dell’apartheid culturale. La quantità di individui giovani, tra i 15 e i 25 anni che in questo paese vive in ghetti e in council estates di cui nessuno parla o scrive (di solito) cresce a dismisura, una dismisura proporzionata alla rabbia e al decrescere di prospettive. L’universo nel quale si abita e si opera è un universo essenzialmente materiale, un grado zero di umanità fondata sul consumo e una prospettiva di vita e di affermazione che si ferma all’indice di quel consumo, legata a forza a quest’ultimo. E lo stesso nel quale viviamo “noi”: solo, senza lo strumento indispensabile per fruirne: i soldi.

Quando Cameron diceva in campagna elettorale che questa era una broken society lo diceva per fini propagandistici, ovviamente. A risentirle ora, quelle parole assumono tutto un altro valore e significato, più che mai sinistro. Questa si sta davvero dimostrando una broken society. Milioni di individui giovani sono al di fuori di questo buzz ormai cacofonico di information technology, industrial design, fashion design, arte, media, twitter e facebook (i rioters usano per comunicare un prodotto che ironicamente li accomuna ai boys della city ma che è terribilmente passé  a Shoreditch: il Messenger del Blackberry, anche perché non è monitorabile dall’esterno. No Apple for them).

Adesso non bisogna avere la disonestà intellettuale e politica di ignorare che il malessere è profondo, che questa società è tornata indietro di venti-trenta anni, non ha voluto cercare di integrare le masse metropolitane al suo interno con una più equa redistribuzione delle risorse e delle possibilità, mentre ha premuto l’acceleratore su un consumo autistico e demenziale. La tragedia è che ora i Tories al potere hanno un perfetto pretesto per rispolverare la loro mai sopita bramosia manganellatrice stile Thatcher e dare per scontata la perdita di una parte così cospicua del corpo sociale metropolitano. “Sono bestie e bisogna sparargli con i cannoni ad acqua, bisogna chiamare l’esercito”. Questo li allontanerà dalla linea tollerante e liberal che li ha portati al potere.

Un’altra cosa che salta agli occhi è la vistosa differenza tra una minoranza privilegiata ipervisibile agli occhi di tutto il mondo grazie alla digitalizzazione dell’informazione e la maggioranza dei “brutti, sporchi (non caucasici) e cattivi” che, di solito invisibile, improvvisamente ha preso il sopravvento in città, spinta dal flusso irrefrenabile della propria adrenalina e dalla coscienza che, non avendo nulla, non ha nulla da perdere. Migliaia di ragazzi/ini incappucciati dal volto coperto che di solito vivono in un  sottosuolo – metaforico e non -, improvvisamente escono allo scoperto, cessando di combattersi fra loro: si coalizzano, si muovono con straordinaria agilità su ali digitali nel ventre delle periferie e colpiscono, indiscriminatamente.

La tragica ironia di tutti questi danni alle cose (per fortuna), è che questi giovani distruggono i luoghi dove vivono, comprese le possibilità di miglioramento e di riscatto alle quali molte delle loro comunità cercavano di lavorare. Distruggono i negozi degli immigrati turchi e curdi di Dalston, gente che è venuta qui sfuggendo alla povertà del proprio paese. L’Apple Store di Regent Street, così affollato dalla minoranza ipervisibile della middle class bianca “creativa” era ben presidiato.

Ci si rimbocca le maniche per pulire le strade dai cocci e dalle carcasse di automobili: ancora di più ci si deve rimboccare le maniche per rifondare un tessuto sociale dalla base.  Ci vogliono decenni per una cosa del genere, e non ci sono soldi. Quando c’erano, si sono spesi male.

Continuiamo a sperare nella ripresa dei mercati. Cosa possiamo fare per ridare loro fiducia? Avrei un modesto suggerimento: privatizzare la società.

The guns of Brixton, Tottenham Hale, Enfield, Walthamstow

La rabbia, e il volere a tutti i costi quello che non si può avere, sono alla base delle ondate di violenza e saccheggio che stanno attraversando la città. I giovani delle gang trovano, per un momento, una ragione per coalizzarsi, distruggere e appropriarsi di proprietà altrui. L’uccisione di Mark Duggan non è che un catalizzatore.

Quando qualche anno fa cose del genere successero a Parigi ci si ripeteva che Londra, con la sua configurazione “a macchia di leopardo”, in cui quartieri poveri si trovano accanto a quelli ricchi in ordine sparso e che quindi non riproduce il modello “centro ricco/periferia-ghetto povera”, niente del genere sarebbe successo.

La tensione sociale esplode in quest’inizio di agosto segnato da enormi difficoltà economiche a tutti i livelli, nazionali e internazionali, alle quali si fa fronte in maniera socialmente iniqua. Nord, Nord Est, Sud di Londra hanno visto esplodere una violenza che covava da tempo. Viene da pensare ai tagli che i Tories vogliono applicare anche alle pensioni e agli stipendi della polizia per contenere i disastri provocati da un settore finanziario al quale si continua a risparmiare il dovuto contrappasso. Alla polizia, gli unici in grado di ristabilire l’ordine e il rispetto della proprietà privata.

Dietro tutto questo, nemmeno l’ombra di un movente politico. A chi scaglia mattoni contro le camionette e le vetrine, arraffa scarpe da ginnastica e computer, dei tagli importa poco, ne sanno ancora meno. E’ la roba che vogliono, la stessa roba che in tempi normali non possono comprarsi, pur vivendo in un mondo che gliela sventola continuamente sotto il naso. Una roba che sembra, ma non è, per tutti. Londra riprecipita negli anni Ottanta, quando posti come Brixton  e la stessa Tottenham Hale erano periodici campi di battaglia.

“Totalmente inaccettabile”, è stato definito dal governo quanto sta succedendo. Ma è chiaro che il loro repertorio di quanto è classificabile come tale va allargato, e di parecchio.

Solopsismo

Oggi volevo scrivere un post sul rischio di disfacimento del nostro sistema economico e invece ho cambiato idea perché in questo momento è assai più urgente scrivere di qualcosa di estetico. Del resto, come ci insegnano storia e filosofia, la struttura non determina forse la sovrastruttura? Perdonate dunque quest’excursus sull’importanza del solo di chitarra elettrica nelle nostre vite di testimoni, vittime e correi dell’implosione del capitalismo maturo.

Per chi, come me, è nato poco prima del maggio francese ed è cresciuto testimoniando inconsapevolmente il suicidio politico (e fisico) della generazione del settantasette – mentre quella del sessantotto preparava il transito dei propri glutei dal tonico esercizio delle manifestazioni alla morbidezza accogliente delle poltrone che avrebbe occupato per almeno tre delle generazioni future -, il solo, detto anche “assolo”, era tabù, per via, naturalmente, della funzione sterilizzatrice che aveva avuto il punk.

La storia, la conosciamo fin troppo bene: il punk era colato come olio motore usato sui broccati del rock progressivo, tutto cervello e scale autoerotiche, e ne aveva bruciato gli eccessi, riducendo tutto a una tabula rasa. Via non solo gli assoli, ma anche la capacità di tenere un giro di do. Il legato teorico di questa operazione avrebbe lasciato un segno profondo sulla musica e su chi vi era cresciuto in mezzo, bandendo gli assolo dal panorama rock e affine. Dire che ti piaceva l’assolo era un’ingenuità da metallaro, e difatti il metal è stato l’unico genere in cui l’appestato assolo trovava non solo rifugio, ma anche culto. Il chitarrista metal (non del metal classico, eh), pur di millantare una perizia tecnica che aveva lontani e non del tutto inconsapevoli legami con quella romantica (l’epoca in cui il virtuosismo trovava la propria prima spettacolare codificazione, soprattutto ad opera di mostri come Paganini e Liszt) adottava una semplice ma efficace tecnica: suonare a velocità supersonica, e spesso perdendosi per strada, le stesse due corde, ottenendo così un effetto uragano dove era facile scambiare la velocità e il caos per bravura tecnica (Early Slayer, anyone?).

Devo dire che non ho mai subito il fascino del chitarrista in una formazione rock che dir si voglia: le mie preferenze sono di solito andate alla sezione ritmica, al bassista e al batterista, le fondamenta dell’edificio musicale. Il chitarrista, come il cantante, forse per la sua insopportabile preminenza, e per il suo stare sempre davanti e fare smorfie da contrazione orgasmico-deiettiva nel momento del climax virtuoso, non ha mai goduto del mio favore, a parte degli incidenti autobiografici di percorso subito contenuti. Ho sempre capito il disgusto per l’assolo rock: detesto cordialmente l’iconografia del chitarrista rock, non ho mai subito il fascino di Townshend e a Starway to Heaven ho sempre preferito Hairway to Steven e potrei continuare (chi volesse approfondire, può partire dalla voce cock rock). Mi piace molto Hendrix ovviamente, e uno che lo ha fuso con Bartòk, come Robert Fripp.

Ma ultimamente mi sono dovuto per forza convertire in parte all’assolo per via della carenza di possibilità compositive che il rock si autoimpone, anche nelle sue mille sfaccettature. In una parola: dopo trentacinque anni di ascolti, il pop-rock mi annoia (una volta eliminato il potente coefficiente mnemonico-nostalgico che contiene) e devo per forza emigrare nel jazz e nella classica per trovare delle esperienze musicali più avvincenti, salvo poi tornare sempre e comunque ai Ramones per ristabilire un grado zero e ricominciare tutto daccapo. L’assolo è un viaggio interessante e costituisce l’espressione più compiuta della bravura di un musicista. Quando non tracima in una marea di mucillagine sonora, cosa che – va detto – accade spesso, rappresenta ancora una delle espressioni più compiute di godimento musicale che sia dato avere in questa valle di rate agencies.

È stato anche per questo che ultimamente ho preso ad ascoltare un assolista forsennato, forse il più forsennato degli assolisti: Allan Holdsworth, uno che costruisce il pezzo attorno al solo, come nel jazz, per intenderci. Arguably, Holdsworth ha la tecnica di legato più incredibile che sia dato ascoltare. I suoi solo più riusciti sono come fare un browsing ravvicinato dei particolari della facciata del duomo di Colonia o dell’Alhambra: il Tutto armonico descritto in un flusso magico e incredibilmente luminoso, una coda di cometa. Un tutto che gli viene dall’ascolto dei fiati nel jazz, Coltrane in particolare. Questo quando gli vengono davvero bene. Non gli vengono spessissimo, perchè è un grandissimo musicista ma non altrettanto un compositore. Le sue cose migliori, a parte un paio di album solisti (segnalerei il ragguardevole Metal Fatigue tra i vecchi, Sand e The Sixteen Men of Tain, l’ultimo) sono con gli altri nomi con cui suonava a inizio carriera: tardi Soft Machine, il grande Tony Williams, UK, Bill Bruford, secondi Gong, J.-L. Ponty, ecc. ecc.

Ed è proprio dal pezzo d’apertura del primo disco da solo di Bruford (1978) che voglio segnalarvi la mia idea perfetta di assolo: non troppo veloce, non spumeggiante di note quanto una poesia di D’Annunzio lo è di parole, flessuoso ed economico: solo alla fine gli sfuggono le dita in un accelerazione turbocharged. In questo caso, il brano di apertura dell’altrimenti non entusiasmante Feels Good to Me, gli deve tutto. Fa da contraltare perfetto al drumming appuntito e metronomico di Bruford. Godetevelo, mentre l’economia degli Stati Uniti, per tacere di quella europea, lentamente si squaglia come i ghiacciai dell’Artide.

P.S. A proposito del pezzo live: Holdsworth, come tutti i grandi, cambia sempre dal vivo perché semplicemente va da un’altra parte, nel puro spirito dell’improvvisazione jazzistica. Per questo ho inserito la versione originale, secondo me superiore a quella live. Rispetto a quest’ultima, please notate come l’impaccio di questi musicisti faccia da ilare contrasto alla loro perizia tecnica. Il loro body language sul palco, soprattutto il caracollare incerto di Jeff Berlin, il bassista, esemplifica l’anomalia live del prog e della fusion, generi che si erano scavati uno spazio nell’estetica rock pur essendo privi dei prerequisiti sessual-teatrali di quest’ultimo.