In ricordo di Lyle Mays, 1953-2020, magnifico musicista, coautore del pezzo più emotivamente intenso di Pat Metheny.
In ricordo di Lyle Mays, 1953-2020, magnifico musicista, coautore del pezzo più emotivamente intenso di Pat Metheny.
È stato appena confermato sottovoce, ma potrebbe finire come altre magniloquenti iniziative sbandierate dal governo uscente, per tacere di quelli usciti ancora prima: in un buco nell’acqua. Parliamo del Festival, manifestazione dal nome ancora antonomastico (e quindi immodesto) che Boris Johnson ha confermato nell’agenda governativa prossima futura in uno degli ultimi atti da premier, qualora riuscisse a farsi rieleggere il prossimo 12 dicembre. E che già i detrattori hanno ribattezzato «Brexit Festival».
È la vera Zelig del contemporaneo. Con i suoi mille sé caleidoscopici, contorti ed evanescenti, ha definitivamente disarticolato il concetto d’identità nella cultura popolare di fine Novecento sfumandolo nell’autorappresentazione, con risultati a dir poco spiazzanti.
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La mostra dedicata a Natalja Gončarova (1881-1962), dal 6 giugno all’8 settembre nelle Eyal Ofer Galleries della Tate Modern, è organizzata con la collaborazione di Palazzo Strozzi di Firenze e l’Ateneum art museum di Helsinki. Copre tutta la produzione dell’artista, dai lavori giovanili alle sue ripetute incursioni nel mondo della moda e nel design d’interni, compresa la preziosa collaborazione con i Ballets russes di Djagilev.
È una mostra completa sui lavori fotografici di Don McCullin (1935), quella vista alla Tate Britain di Londra: dai memorabili scatti di guerra, comprese immagini dal Vietnam e dall’Irlanda del Nord fino alle foto più recenti dalla Siria. Ma anche i servizi realizzati in Inghilterra, sulla povertà e sul lavoro e i paesaggi del Somerset.
“Mito”, “leggenda”, “icona”: logore e abusate (© correttore di Word) formule con cui chi scrive di qualcuno noto cerca di enfatizzarne a tutti i costi l’importanza (e con essa la propria, giacché viviamo e moriremo in una società celebrolesa).
Nei quasi tre anni che ci separano dal 23 marzo 2016, la squassante virulenza con cui la British exit si è abbattuta sulla Gran Bretagna – scavando un fossato nelle famiglie, nelle coppie e nella società in generale, rimescolandone pubblico e privato e riscoprendo una dimensione politica del reale in realtà mai venuta meno – ha prodotto un gettito di lavori che cercano di descrivere, analizzare, criticare quello che è evidentemente uno psicodramma identitario collettivo.
Se il liberalismo anglosassone ha sempre tenuto a bada la demagogia, lo deve anche a Shakespeare. Non è dunque per coincidenza che le élite metropolitane di New York e Londra, giustamente turbate dal trumpismo imperante come dal nazionalismo targato Brexit, ricorrono al Bardo per mettere in guardia sul pericolo corso da una democrazia odiosamente sottratta al loro oligopolio.