Amy Winehouse se n’è andata, lasciandoci con un doloroso strascico – più che di interrogativi – di tristi consapevolezze. Il suo è stato un suicidio in diretta cominciato anni fa e documentato su ogni supporto mediatico giornalistico possibile: fotografico, televisivo, di social network ecc. Il fatto che ieri abbia trovato finalmente compimento lascia in bocca l’imbarazzante amarezza del cinismo. Non intendo discutere della sua morte da un punto di vista umano: non conoscevo la ragazza, e le prefiche virtuali le lascio a chi crede di averla conosciuta e di essere davvero triste per la sua scomparsa. Non voglio nemmeno discutere le forme di lutto “al telefono” create dalla società dello spettacolo, che innescano strampalati processi di identificazione in una figura inesistente, gonfiata con l’elio della fama: l’orrore inimmaginabile della Norvegia impone una sorta di inevitabile, puritana prioritarizzazione (sì, è una parola inventata) nell’ordine delle cose su cui interrogarsi.
Quel che è certo è che con questa triste scomparsa la cultura pop del XXI secolo non fa che adeguarsi a quella del XX, ora che abbiamo altro materiale da gettare nel calderone del “club dei 27” e altre menate mitopoietiche. La sola, ma fondamentale, differenza è la mancanza del mito: il suicidio di Amy Winehouse è stato radiografato fin dagli inizi e porta su di sè il marchio di un’inevitabilità inesorabile. Le cronache traboccano di estenuanti rendiconti delle suo processo autodistruttivo. In altre parole, un’inevitabilità che non lascia spazio a variazioni per violino sull’ormai logoro, e fastidiosamente retorico, tema dell’artista maledetto. “Il talento è stato lo zolfo che l’ha fatta bruciare immediatamente, come un sottile fiammifero”, mi verrebbe da scrivere. La realtà è che non sappiamo cosa l’abbia spinta davvero a voler morire, non lo sanno nemmeno le persone a lei più vicine, non lo sanno nemmeno il padre e la madre. La ricordo con questa cosa che ho scritto qualche anno fa nel mio blog di allora.
Amyshambles
La musica di Amy Winehouse potrà anche essere “appalling” come ha scritto qualche critico, probabilmente sedicenne, su Pitchfork tempo fa. Non posso lasciarmi trasportare dal furore iconoclasta della gioventù, anche se davvero non mi vedo a mettere la sua roba retrò nel lettore dopo una giornataccia, nonostante viva circondato da tecnologia che a stento supera il 1985. Per me lei è come un ottimo copista di Caravaggio. Che me ne frega del copista quando posso andare a S. Luigi dei Francesi? Ma non è della rilevanza, peraltro indiscutibile, di quest’artista che voglio parlare, quanto della sua incalcolabile vulnerabilità. Lo faccio dopo aver letto le reazioni della stampa britannica al concerto a Birmingham col quale ha inaugurato il suo tour in UK. Un concerto disastroso secondo alcuni, potente e autentico secondo altri, dove l’artista ciondolava instabile sul palco trangugiando secchiate di alcol mentre apriva il suo cuore alla disperazione per la sorte del marito.
Come alcuni di voi sapranno, il marito della ragazza è in galera per aver cercato di corrompere un teste dell’accusa in un processo per aggressione che lo vede imputato. Che costui sia un cialtrone, come tutti si affannano a sottolineare, è un fatto di per sé irrilevante. L’amore è cieco e tutte quelle cose lì. Amy, personaggio autentico in modo disarmante, anche nel talento, è una giovane donna incapace di mentire e tantomeno di simulare: il suo meltdown, il suo crollo psicofisico è un fenomeno che avviene in diretta, senza filtri mediatici, o le coperture di PR tipiche degli entourage di una star del suo calibro. Anche il suo matrimonio è avvenuto all’insegna dell’autenticità: a Miami, davanti a quattro persone. Dopo, un cheesburger e una chiusa in albergo, come due adolescenti in fuga.
Winehouse è una donna insicura di tutto, tranne che del suo talento. Non è bella, in primis. E in un mondo come il suo, dove il packaging conta spesso più del contenuto, essere la migliore songstress della sua generazione davvero non le basta. La sua commovente dipendenza nei confronti del marito, e quella non altrettanto commovente nei confronti delle sostanze, evocano il ricordo di altre grandi stelle tristi, non convenzionalmente attraenti e per questo autodistruttive: Edith Piaf, o Anna Magnani, per non parlare delle grandi signore del jazz: Ella, Nina, Billie. Donne a cui era negato il plauso universale e istintivo che concediamo prontamente quando i nostri occhi illuminati si posano sulla loro bellezza, e che devono fare costantemente i conti con una visibilità ottenuta solo col talento che, crudelmente, amplifica a dismisura la loro inadeguatezza estetica, o meglio, la loro soggettiva percezione di questa. Donne spesso attanagliate da dolore e tossicopendenza.
I giornali britannici si dividono su Winehouse. Il problema è che sta nel mondo sbagliato. È una jazzista che ha fatto crossover nel mondo del pop, dove le regole sono precise: essere belle, finte, in playback. Lei non è bella, è reale e sa cantare. È arrivata direttamente ai tabloid senza passare per i fumosi jazz club. E questi, col loro populismo forcaiolo, ora ne condannano il pessimo influsso sulla gioventù (un panico moralista che accompagna da sempre il conservatorismo culturale). I quality papers la difendono, terrorizzati dall’essere tacciati piccolo borghesi. Per loro, Winehouse è un altro agnello sacrificato sull’altare della celebrità. In mezzo sta l’essere umano Winehouse, inafferrabile eppure disarmante nel suo bisogno di aiuto. Un aiuto che la società dello spettacolo non è capace di, né tenuta a, dare.
(15/11/07)