L’aspetto più intrigante di molta musica attuale sono i riferimenti stilistici che contiene. Nascosti o manifesti che siano, il gioco intellettuale di volerli identicare a tutti i costi prende il sopravvento sul godimento dell’ascolto vero e proprio.
Con i Polar Bear, formazione inglese ora al sesto album con “Same as you”, tutto questo non succede. Certo, anche per loro va tassativamente utilizzato il presso “post-”. Ma non importa cosa ci sia dopo: Post-rock? Post-jazz? Post-dub? Inutile affaticarsi nello stabilire le influenze. La formazione del musicalmente ipercinetico batterista scozzese Seb Rochford, reduce da una nomination al Mercury Prize del 2014, è già tornata con un album nel segno di un inebriante abbandono panteistico, come declama il primo brano, “Life, love and light,” l’unico a presentare un testo poetico.
Ma i momenti epici del disco sono le due roteanti quasi-improvvisazioni “We Feel The Echoes” e “Unrelenting unconditional” che colano tenui nelle orecchie, probabilmente anche perché l’album è stato mixato non in uno studio ma nel deserto Mojave in California. La vastità dello spazio aperto sembra preoccupare i musicisti più che nelle precedenti composizioni, e il risultato è un’apertura in puro stile anni Settanta al cosmo e all’amore.
L’inconfondibile Rochford è l’indiscusso leader di questo quintetto che sta conquistando sempre più seguito nel Regno Unito e non solo. Ha lavorato con una pletora di nomi che sfida qualunque categorizzazione, da Brian Eno a Brett Anderson, da Herbie Hancock a Pete Doherty. Suona la batteria con uno stile del tutto anticonvenzionale, che qua e là ricorda il pioniere del Krautrock Jaki Liebezeit. Ma ecco che siamo appena ricascati nel giochino di stabilire i debiti di Rochford e della sua band…