Posso dirla la mia città, anche se non vi sono nato e ho mai avuto una casa che fosse mia. Sono anzi ormai più gli anni che ho vissuto altrove di quelli spesi a Roma. Forse anche per questo nulla di quel poco di urbanistico, artistico e architettonico che ho visto su questa grande biglia nel cielo denominata terra può competere con essa, tantomeno naturalmente The Great Wen, nel quale vivo da vent’anni. Anche per questo oggi piango la morte di Remo Remotti.
Una grande perdita. Romana, prima di tutto, perché dai tempi di Flaiano e Remotti questa città meravigliosa e canaglia non ha saputo esprimere voci capaci di coglierne l’essenza più intima con altrettanto stupendo sarcasmo. Prima di loro, bisogna risalire a Belli e Trilussa.
L’abbraccio mortale di Roma è uno dei capisaldi della cultura italiana, ancora oggi che la città affonda nella melma del malaffare, dell’intolleranza e dello svacco morale e materiale. Quando vidi questa cosa di Remotti fu come se tutta la storia e il significato di Roma moderna – questo grosso borgo campestre materia del paesaggismo di artisti stranieri illustri, dedito alla pastorizia prima ancora che alla corrotta amministrazione, schiacciato dalle babbucce papali e freneticamente restaurato capitale di una nazione in gran parte inventata – mi si dispiegasse in tutta la sua infinita, triste poesia. Roba folgorante. Per questo non posso fare a meno di ricordarlo con il suo capolavoro.