
D ’accordo, esistono esperienze più dirompenti che trovarsi a Northampton di lunedì sera. Basta camminare in una luminosa serata estiva per il centro semideserto della cittadina a un paio d’ore di treno da Londra, per comprendere come mai fuori della Gran Bretagna se ne sappia poco.
Eppure è proprio qui che Marty Ferrara, italiano immigrato a New York che scarica schiaccianti sacchi di juta nei docks sull’Hudson, fratello maggiore del Marlon Brando di “Fronte del porto”, si è materializzato in prima mondiale dopo oltre sessant’anni di oblio. Per raccontarci una storia ancora tristemente attuale.
Interpretato con verve dall’attore scozzese Jamie Sives, Marty è il protagonista di un dramma inedito di Arthur Miller: “The hook”, (l’uncino), che ci riporta al periodo aureo della vena del drammaturgo americano, tra i massimi del Novecento. È un personaggio paradigmatico di Miller: un uomo etico, incapace di accettare passivamente i soprusi del potere. Lo scaricatore Ferrara è oppresso come i compagni da un sistema di sfruttamento molto simile al caporalato agricolo della madrepatria. Cerca di diventare leader del sindacato per impedire la collusione mafiosa di quest’ultimo con gli armatori che spezzano la schiena dei lavoratori in cambio di una paga da fame, sfidando entrambi e mettendo a repentaglio, oltre al reddito, la sicurezza sua e della sua famiglia. È un uomo impulsivo e vitale, non certo un santo, pronto ad accettare le conseguenze del suo misurarsi coi gangsters. «I was born in Italy! This is fascism!», tuona in marcato accento di Brooklyn in una scena climax, in mezzo alle battute in italiano degli altri suoi compagni di lavoro. Marty è il protagonista di un dramma sociale in cui scorrono le energie del miglior teatro milleriano, poi confluite in altri classici dell’autore.
La crisi ha riportato in auge il teatro sociale e politico in Gran Bretagna. Così, nell’anno in cui cadono il centenario della nascita e il decennale della morte, Arthur Miller conta due allestimenti di “Uno sguardo dal ponte” e, nel West End, il classico “Morte di un commesso viaggiatore”, messo in scena della Royal Shakespeare Company. Ma è stato il teatro di Northampton – il Royal & Derngate – ad aggiudicarsi il colpaccio: il dramma è riemerso qui, non a Londra e tantomeno a New York.
L’uncino del titolo è lo strumento con cui si agganciano i sacchi da scaricare – ma è anche il Red Hook district di Brooklyn dove allora vivevano i portuali. Miller era cresciuto anche lui da quelle parti, e si ricordava della frase in italiano «Dove (sic, per “dov’è”) Pete Panto?» scritta sui muri della zona. Panto era uno scaricatore di origine italiana e aveva sfidato la mafia che controllava il lavoro portuale. Dopo aver denunciato i gangster era scomparso nel nulla, solo per riemergere anni dopo, morto, in un cava nel New Jersey. Per Miller, da Panto a Ferrara il passo dev’essere stato breve. Ma è difficile non ricollegare le atmosfere del dramma a quelle di oggi: in tempi di jobs act e contratti a zero ore, capitale e lavoro continuano il loro eterno braccio di ferro.
La guerra fredda ha fatto tante vittime tra le opere d’arte. Quelle che vedevano la luce erano spesso bieca propaganda; e molte di quelle che non lo erano, di luce non ne videro proprio. “The hook” è una di queste. Un testo politicamente scomodo, mai rappresentato, che ne ha però generati altri, straordinari: e quello messo in scena adesso è un perfetto esempio di archeologia teatrale, culmine di una ricerca durata sei anni. James Dacre, il regista, è stato avvicinato dallo scenografo Patrick Connellan, che aveva conosciuto Miller e ottenuto la sceneggiatura, completa di note autografe, dalla biblioteca dell’università del Texas. Il testo è stato poi adattato dallo sceneggiatore Ron Hutchinson, che dalle varie versioni ha ricavato quella denitiva. Proprio per la sua vocazione cinematografica, lo spettacolo ha un ritmo quasi trafelato, dove gli attori – alcuni dei quali non professionisti -, si avvicendano in icastici tableau ricchi di impeto e tensione. Sives è accompagnato da un cast eccellente, fra cui spicca il capo corrotto del sindacato, interpretato da Joe Alessi.
Dacre ha scritto nel programma di sala che la storia dietro il dramma merita da sola una sceneggiatura, e senza minimamente esagerare. Nel 1951 Miller arriva da Chicago in treno in una Hollywood asserragliata nella paranoia anticomunista. Come molti altri intellettuali liberal americani, è ancora un marxista dichiarato, complice forse l’esser nato in una facoltosa famiglia di piccoli industriali tessili ebrei – gettata da un momento all’altro nella più nera povertà dal crollo del ’29 – e cresciuto nel new deal rooseveltiano. In una tasca ha il Pulitzer, ottenuto sull’onda dello strepitoso successo a Broadway con il suo capolavoro, “Morte di un commesso viaggiatore”, per la regia di Elia Kazan, che lo accompagna. Nell’altra, ha “The hook”. Con loro, una certa Marilyn Monroe – all’epoca in liaison con Kazan – nella parte della di lui segretaria. Sarebbe diventata la signora Miller solo qualche anno dopo naturalmente, regalando al marito una popolarità che il teatro ha dato forse soltanto a Shakespeare, ma questa è un’altra storia.
Miller e Kazan propongono il film a Harry Cohn, capo della Columbia Pictures, un autocrate degli studios di vecchia scuola che pretendeva favori sessuali da tutte le attrici che scritturava. Visto il clima – si è in piena guerra di Corea – il film così com’era viene considerato uno spot gratuito all’Armata Rossa. La storia avrebbe potuto condurre le maestranze portuali alla sedizione, almeno secondo la logica di Eugene McCarthy. Perché il film si faccia, Cohn contropropone che alcuni dei gangster maosi del testo diventino comunisti. Sdegnato, Miller ritira lo script e gira i tacchi.
Il rifiuto di Miller getta una luce preveggente sulle future strade dei due giganti. L’ex comunista (pure lui) Kazan nel ‘54 avrebbe diretto “Fronte del Porto”, scritto da Budd Schulberg su una storia che ricorda molto quella di“The Hook” e interpretato da un Brando al massimo del suo carisma. Poco dopo, avrebbe spiattellato i nomi dei colleghi comunisti davanti al famigerato Huac (House Un-American Activities Committee). Fu rottura con Miller, il quale – interrogato in seguito a sua volta – di nomi non ne avrebbe fatti, beccandosi una condanna per disprezzo della corte, oltre che quello di tutta l’America moderata. Sarebbero passati anni prima del riavvicinamento a Kazan. L’abbandono coatto di “The hook” lo avrebbe portato a scrivere “Uno sguardo dal ponte”, in cui rivisita alcuni degli stessi temi. Fino naturalmente a “Il crogiolo”, cui si deve l’invenzione stessa della metafora“caccia alle streghe”come rappresentativa di tutto quel periodo di storia degli Stati Uniti.
“The Hook”non è forse il capolavoro perduto di Arthur Miller, come parte della critica ha sentenziato: ma è difficile pensare che quando, qualche anno dopo, il drammaturgo rifiutò di fare i nomi degli spiantati sceneggiatori comunisti di Hollywood che i cacciatori di streghe volevano fargli a tutti i costi denunciare, Marty Ferrara non fosse con lui. Prossime date a Liverpool, teatro Everyman, fino al 25 luglio.