Brexit? In fondo al molo di Wigan

Capire Brexit? Vaste programme, avrebbe risposto Charles de Gaulle. Proprio lui, che nel 1967 pose il veto al primo tentativo della Gran Bretagna di entrare nell’Ue 1.0, allora nota come Mercato Comune Europeo. Sì perché, quando si tratta di British Exit, comprendere è ormai una velleità.

Lo scontro governo-parlamento, un neo-Primo Ministro senza maggioranza che ha sospeso il parlamento con una mossa sul filo dell’incostituzionalità, che potrebbe darsi da solo la sfiducia pur di addivenire ad elezioni anticipate, che potrebbe essere fatto oggetto di impeachment, o perfino arrestato per non voler rinviare la scadenza del prossimo 31 ottobre: non sono che alcuni elementi di un quadro politico capovolto, ubriaco, impazzito. Complesso rebus sociopolitico, deflagrante implosione costituzionale, vero e proprio psicodramma collettivo: come ogni processo in fieri, Brexit è tutte queste cose e molte altre, spariglia carte, evoca definizioni. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare.  

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Da Wigan, per esempio: la Stalingrado britannica nel cuore del Lancashire, non lontana da Manchester, miniere di carbone che hanno lanciato l’economia occidentale e forgiato generazioni ormai chiuse, fiero ethos operaio ereditato dai nonni e dai padri. La stessa da cui partì George Orwell nel suo giovanile viaggio di denuncia nella povertà del Nord di un Paese ancora tramortito dalla Grande depressione e compiuto per il Left Book Club, la collana di libri socialisti del grande editore, filantropo e attivista Victor Gollancz e che divenne il romanzo La strada di Wigan. Cittadina operaia, mineraria, di poco sopra il centinaio di migliaia di abitanti, sul fiume Douglas, antico cuore dell’Inghilterra della rivoluzione industriale e oggi simbolo postmoderno del vandalismo sociale che la deindustrializzazione thatcheriana ha portato nei distretti minerari del Nord, bastione laburista dai primordi (fin dal 1918 ha sempre eletto un deputato Labour), Wigan è oggi anche la roccaforte dell’uscitismo di sinistra. 

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Essere immortalata da Orwell come un ricettacolo di degrado ed emarginazione sociale ha causato risentimento, ma anche orgoglio: emozioni che, in un paese a due velocità come la Gran Bretagna, il nord povero ha sviluppato come risposta ai privilegi del sud ricco, la Manchester deindustrializzata contro la Londra del Big Bang finanziario. Perché, a voler approssimare il quadro, la mappa sociografica della Gran Bretagna appare capovolta rispetto a quella dell’Italia: il sud è appunto ricco, agrario, middle class, conservatore; il nord è povero, operaio, deindustrializzato, prevalentemente laburista, nonostante l’erosione che i due maggiori partiti hanno sofferto a vantaggio delle nuove forze “sovraniste”. A Wigan hanno votato per il leave quasi il 64%, al netto di un’affluenza del 69.2%: percentuale bulgara a dir poco e in netto contrasto con la tendenza remainprevalente nei collegi laburisti del resto del paese, per non parlare della “cosmopolita” capitale. E non ha fatto altro che radicalizzare questa sua posizione, man mano che pietoso guazzabuglio che è divenuto la politica nazionale si andava complicando: alle elezioni europee del maggio scorso, il 41% ha votato per il Brexit Party di Nigel Farage, la spina che Boris Johnson dovrebbe cavare dal fianco dei Tories, per la prima volta nella storia spodestando il Labour e rosicchiandogli addirittura un quinto delle preferenze. 

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Per comprendere i motivi dei recenti tentennamenti del leader laburista Jeremy Corbyn e la sua resistenza alle fortissime pressioni interne che lo spingevano ad abbracciare inequivocabilmente una posizione filo-Ue e a inseguire il secondo referendum a tutti i costi (ha ceduto solo negli ultimi giorni), basta farsi un giro in città. Tra le saracinesche abbassate per colpa dei centri commerciali e della vendita online, i banchi alimentari e le mense – resi necessari dalla brutale austerità con cui si è risposto alla crisi del 2008 – dove i pensionati, gli indigenti e i disoccupati trovano da mangiare e dove i servizi pubblici sono quasi al collasso. Una situazione aggravata dalla riforma dei sussidi del governo Cameron denominata Universal Credit, che con la scusa della semplificazione burocratica ha spietatamente pauperizzato i già poveri. Lisa Nandy, la deputata Labour di Wigan, da mesi si trova tra l’incudine della linea moderata anti-Brexit – che il partito ha assunto per contrastarne il monopolio ai Libdem – e il martello dei suoi elettori, sempre più scontenti e disillusi.

Anche qui riecheggia la frase sentita un po’ ovunque ormai sui media sociali, in televisione, alla radio, per strada: “Get on with it!”, facciamola finita e usciamo, basta tergiversare. È stato uno dei momenti di rara democrazia diretta quel referendum, e ora puntualmente si cerca di disattenderne l’esito. La rabbia monta, la destra nazionalista cresce. L’Europa? “Non ci serve”; “C’è abbastanza industria qui da noi, non abbiamo bisogno di aiuti esterni”; “Abbiamo votato per uscire: usciamo allora, e ricostruiamo questo Paese.” Sono le opinioni più frequenti espresse dai cittadini di Wigan, e il sottotesto è sempre quello: l’orgoglio e l’indipendenza nazionale vengono prima della convenienza economica. Con buona pace dell’utilitarismo e del pragmatismo che tutto il mondo liberale gli invidiava, il paese si ritrova ormai nelle grinfie della cosiddetta ideologia: lo dimostra l’ormai celebre “Fuck business” con cui Boris Johnson – pur nella sua solita autoreferenzialità – ha liquidato le proteste del mondo dell’impresa alla linea euroscettica abbracciata dai conservatori. Tutto carburante nel serbatoio del nazionalismo inglese, strano Godzilla risvegliatosi di recente – soprattutto in risposta a quello “degli altri”: scozzese, nordirlandese e gallese – dal lungo sonno nel quale lo aveva tenuto l’impero. Com’è ormai evidente, fuori dell’ideologia non v’è salvezza.

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La diabolica banalità della campagna per il leave ha attecchito per poi crescere a dismisura proprio così: associando nelle menti offese dei cittadini la remota lontananza di Bruxelles con la propria emarginazione sociale, ed esaltando la retorica ur-fascista del “tradimento” della nazione e della democrazia, ormai così trasversale fra destra e sinistra non senza un certo fondamento. Così la base operaia, abbandonata da un New Labour infatuato di finanza creativa e supino alle politiche austeritarie dei governi Tory volitivamente appoggiate dai Libdem, è finita nelle tasche sovraniste di Nigel Farage, al momento sbavante per un’alleanza elettorale con i conservatori di Johnson dopo aver frettolosamente affondato l’Ukip e varato il Brexit Party alle ultime europee.

È in posti come Wigan, capitale del Regno Diviso, che il Labour si gioca dunque l’anima. Un’anima brusca, senza fronzoli, sincera e schietta come solo il Nord inglese sa essere. “Se c’è qualcuno cui mi sento inferiore, è il minatore” scriveva Orwell nel suo romanzo, esprimendo tutto il senso di colpa della classe media coloniale che forniva i quadri amministrativi all’impero. Esempio da manuale della perdita di contatto e credibilità della sinistra con il proprio blocco elettorale storico a vantaggio dei partiti populisti e dell’estrema destra, Wigan è un’istantanea del Paese oggi come ai tempi del giovane Eric Blair.  

Ottant’anni dopo la sua indagine-denuncia sociale, il sospetto che molte cose siano rimaste le stesse dai tempi del viaggio di Orwell è odioso ma insistente. Chiuso da anni, sul dock che ha ispirato il titolo del suo romanzo, il pub che ne reca l’effigie e porta il nome, per anni punto di ritrovo dei giovani di Wigan, si affaccia sull’acqua plumbea del canale un tempo brulicante di chiatte cariche di merce. A Wigan si vede un Paese che crede di potersi tirare su dalla crisi da solo, per i capelli. Altro che pragmatismo o ideologia: questa è ormai fede.

(L’Espresso, 15/09/19)

 

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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