Julian Schnabel

Continua – e fortunatamente finisce qui – la serie articoli scritti e che, non essendo mai usciti, hanno provocato l’autolesionistico ma catartico sfanculamento di committenti falsi e bugiardi. In questo caso parliamo del settimanale D, e dell’allora suo caporedattore cultura e spettacoli, dal cognome omonimo di un vegetale o una dermatologica escrescenza. Dopo quasi un decennio di pezzi strepitosi pagati una miseria, alla mancata uscita di questa intervista ho preferito vivere, ergo, me ne sono anDato. Il pretesto per l’intervista è ovviamente un’emerita zozzata, una partnership con la giustamente defunta ma poi risorta casa automobilistica Maybach, sorta di Mercedes sotto estrogeni che faceva auto oscene (lo dico da estimatore mio malgrado del genere automobilistico) per ricchi bifolchi. Partnership che lui tra le righe confessa come motivata dal cronico bisogno di sterco del demonio. Tolto quello di mezzo, si conferma come meritevole di lettura. Enjoy.

Ha i suoi detrattori, ma è ormai considerato ampiamente un American classic.

Non è quindi un caso che, in piena biennale, il veneziano Museo Correr dedichi una vasta rassegna all’opera di Julian Schnabel, curata da un’altra star – quel Norman Rosenthal di cui la Royal Academy di Londra sente terribilmente la mancanza. In “Permanently Becoming. Julian Schnabel and the Architecture of seeing” dal 4 giugno al 27 novembre sarà possibile ripercorrere le mosse dell’impetuoso artista americano dagli esordi negli anni Settanta fino alla recentissima “Queequeg”, colossale scultura in bronzo, la prima opera d’arte mai commissionata da una casa automobilistica.

«Mi sono sempre piaciute le automobili; anche a Picasso piacevano, e a Picabia». È opinione diffusa che Schnabel abbia un grande ego. E una simile risposta a come mai abbia deciso di entrare in partnership per due anni con la Maybach non fa che avvalorare la tesi. «Le auto piacciono agli artisti forse perché non sono altro che sculture, come la Bentley S1 Continental del 1955: 25 anni fa me ne comprai una». Julian Schnabel ha avuto parecchie auto da allora. «Quando vivevo in Texas da ragazzo avevo una Buick lunga quando una nave. Un giorno, per strada, ho visto una Maybach che ha attratto la mia attenzione. Ci sono entrato: era fantasticamente comoda».

Schnabel non ama passare inosservato. La mole, l’eccentricità (predilige inframmezzare le sue mise con bermuda e pigiama in ordine sparso) costantemente sfoggiate in un giocoso e sistematico sfottò della forma, non si limitano alla sua persona. L’artista americano ha dipinto una delle sue case di New York (è anche immobiliarista, oltre che cineasta, scultore e designer di mobili) di rosso pompeiano, gli ha dato una facciata veneziana e lo ha chiamato, in omaggio alla ex-moglie, Chupi. Per i nemici di entrambe è un Damien Hirst degli anni Ottanta: è pur vero che, se non la poetica, spregiudicatezza, ambizione e talento per gli affari lo avvicinano all’artista inglese. Ma non sarebbe meglio forse considerare Hirst uno Schnabel degli anni Novanta?

Classe 1951, Schnabel esplode nel decennio dell’opulenza, quando i suoi plate-painting (vasti dipinti realizzati anche con i cocci di piatti di ceramica, visibili in gran parte a Venezia) lo catapultano ai vertici della scena neo-espressionista (poco prima della parabola del suo più giovane amico Jean-Michel Basquiat, la cui storia raccontò anni dopo, dirigendo l’omonima pellicola).

Basquiat non è che uno dei film di questo eclettico puro, capace di vincere Cannes nel 2007 con un mirabolante capolavoro (Lo scafandro e la farfalla, miglior regia, NdR) e di affrontare, lui proveniente dall’aristocrazia ebraica newyorchese la questione palestinese con il recente Miral, tratto dal romanzo di Rula Jabreal e dalla cui lavorazione è scaturita una relazione fra i due (per effetto della quale Schnabel – cinque figli in tutto – ha divorziato dalla moglie, l’ex modella basca Jacqueline Olatz López Garmendia, detta Chupi). Ma lui insiste nel considerarsi principalmente un pittore.

Il biennio Schnabel/Maybach (gruppo Daimler, specializzata in vetture ultralusso), lanciato alla scorsa edizione di Art Basel Miami, vedrà l’artista americano fare da mentore a giovani artisti e contribuire a rendere la Wilhelm & Karl Maybach Foundation un patron delle arti, sulla scia di una precedente sodalizio fra il marchio e David LaChapelle. Ad Art Basel, lo scorso dicembre, ha inoltre raccolto un milione di dollari attraverso un’asta per la J/P Haitian Relief Organization, l’organizzazione del caro amico di Schnabel Sean Penn per le vittime del terremoto di Haiti. Per l’occasione, Schnabel ha presentato “Queequeg – The Maybach Sculpture”, la prima opera d’arte commissionata da un marchio automobilistico: massa bronzea alta oltre quattro metri per una tonnellata e mezza (prende il nome dal personaggio del ramponiere in Moby Dick) che rappresenta il culmine della mostra.

Nessun problema a vedersi associato ad un marchio automobilistico: «Prima di tutto, chi crea queste cose lo fa con soddisfazione e orgoglio. Queste auto non sono certo prodotte in degli sweatshop. Inoltre, trovo difficile stabilire un grado di “corresponsabilità” fra me e gli acquirenti abituali di auto del genere» (prevalentemente multimilionari, NdR).

Peraltro, l’immagine di artista superficiale non gli si addice mai del tutto: nonostante le critiche tiepide, il suo Miral ha messo il dito sulla piaga del Medio Oriente, invitando alla riflessione. «È un film che cerca di indurre le persone a guardarsi gli uni gli altri in modo più umano e cercare una nuova via di comunicazione. Dimostra che la società civile di ambo le parti coinvolte nel conflitto è in balia del fanatismo. Anche per questo credo che il film sia oggetto di un vero e proprio sabotaggio», continua, mentre la voce profonda si anima particolarmente. «Ricevo molte lettere sul film e ho visto le reazioni ai festival compresa Venezia, dove abbiamo avuto una standing ovation: ovunque la gente lo veda, reagisce. Sono convinto che ci sia un piano per boicottare il film, per questo ho deciso di fare degli screening preliminari prima di farlo uscire negli Stati Uniti. Dopo questo film voglio concentrarmi sulla pittura per qualche anno.»

Schnabel resta e vuole restare, soprattutto, pittore: creare quegli ampi spazi senza una narrativa apparente che lo hanno reso celebre. «Cammino per strada e vedo quadri dappertutto. Ogni immagine ha un potenziale, ci sono infinite opportunità. La mia dimensione ideale di vita, l’alternanza più sublime, è dipingere una parte della giornata e poi fare surf», una presenza, quella del surf, assidua nelle sue opere. Naturalmente non è così facile con le mostre da organizzare, i curatori da scegliere, il mercato da tenere sotto controllo. «Il business mi rende nervoso, ma ho 5 figli a cui pensare e voglio lasciargli stabilità. Quando dipingo non penso, dipingo e basta. Avere il tempo di farlo, addirittura essere pagato per farlo è un privilegio straordinario. Anche se non sono mai stato interessato nel mercato dell’arte (contrariamente alla sua nomea, Ndr), capisco che sia necessario. Rubens era molto ricco, Vermeer no. Caravaggio era diverso da Bernini. Ma mi sento benedetto dalla pittura, tutto quello che faccio scaturisce dal punto di vista pittorico e mi dà gioia infinita. Ho provato questa sensazione l’ultima volta di recente, davanti a un piccolo Cézanne: non era tanto il quadro a farmi impazzire, quanto la gioia del pittore nel farlo, era ancora tutta lì, espressa anche a distanza di secoli.» E oggi? «Quello che diventa sempre più difficile trovare nell’arte è l’inimitabilità.»

(22-01-2011)

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Author: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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