Per Amy Winehouse, che avrebbe oggi compiuto quarant’anni

Noterelle scritte una vita fa, chiedo venia se le ripubblico.

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Amyshambles

La musica di Amy Winehouse potrà anche essere “appalling” come ha scritto qualche critico, probabilmente sedicenne, su Pitchfork tempo fa. Non posso lasciarmi trasportare dal furore iconoclasta della gioventù, anche se davvero non mi vedo a mettere la sua roba retrò nel lettore dopo una giornataccia, nonostante viva circondato da tecnologia che a stento supera il 1985. Per me lei è come un ottimo copista di Caravaggio. Che me ne frega del copista quando posso andare a S. Luigi dei Francesi? Ma non è della rilevanza, peraltro indiscutibile, di quest’artista che voglio parlare, quanto della sua incalcolabile vulnerabilità. Lo faccio dopo aver letto le reazioni della stampa britannica al concerto a Birmingham col quale ha inaugurato il suo tour in UK. Un concerto disastroso secondo alcuni, potente e autentico secondo altri, dove l’artista ciondolava instabile sul palco trangugiando secchiate di alcol mentre apriva il suo cuore alla disperazione per la sorte del marito.

Come alcuni di voi sapranno, il marito della ragazza è in galera per aver cercato di corrompere un teste dell’accusa in un processo per aggressione che lo vede imputato. Che costui sia un cialtrone, come tutti si affannano a sottolineare, è un fatto di per sé irrilevante. L’amore è cieco e tutte quelle cose lì. Amy, personaggio autentico in modo disarmante, anche nel talento, è una giovane donna incapace di mentire e tantomeno di simulare: il suo meltdown, il suo crollo psicofisico è un fenomeno che avviene in diretta, senza filtri mediatici, o le coperture di PR tipiche degli entourage di una star del suo calibro. Anche il suo matrimonio è avvenuto all’insegna dell’autenticità: a Miami, davanti a quattro persone. Dopo, un cheesburger e una chiusa in albergo, come due adolescenti in fuga.

Winehouse è una donna insicura di tutto, tranne che del suo talento. Non è bella, in primis. E in un mondo come il suo, dove il packaging conta spesso più del contenuto, essere la migliore songstress della sua generazione davvero non le basta. La sua commovente dipendenza nei confronti del marito, e quella non altrettanto commovente nei confronti delle sostanze, evocano il ricordo di altre grandi stelle tristi, non convenzionalmente attraenti e per questo autodistruttive: Edith Piaf, o Anna Magnani, per non parlare delle grandi signore del jazz: Ella, Nina, Billie. Donne a cui era negato il plauso universale e istintivo che concediamo prontamente quando i nostri occhi illuminati si posano sulla loro bellezza, e che devono fare costantemente i conti con una visibilità ottenuta solo col talento che, crudelmente, amplifica a dismisura la loro inadeguatezza estetica, o meglio, la loro soggettiva percezione di questa. Donne spesso attanagliate da dolore e tossicopendenza. 

I giornali britannici si dividono su Winehouse. Il problema è che sta nel mondo sbagliato. È una jazzista che ha fatto crossover nel mondo del pop, dove le regole sono precise: essere belle, finte, in playback. Lei non è bella, è reale e sa cantare. È arrivata direttamente ai tabloid senza passare per i fumosi jazz club. E questi, col loro populismo forcaiolo, ora ne condannano il pessimo influsso sulla gioventù (un panico moralista che accompagna da sempre il conservatorismo culturale). I quality papers la difendono, terrorizzati dall’essere tacciati piccolo borghesi. Per loro, Winehouse è un altro agnello sacrificato sull’altare della celebrità. In mezzo sta l’essere umano Winehouse, inafferrabile eppure disarmante nel suo bisogno di aiuto. Un aiuto che la società dello spettacolo non è capace di, né tenuta a, dare.

(15/11/07)

New Shoreditch Twatters

Shoreditch Twat era il titolo di una fanzina, edita in quel di Shoreditch a inizio anni Duemila, nel pieno boom delle gallerie d’arte che avrebbe dato la stura alla colonizzazione di yet another zona ex povera da parte dell’esercito di giovani  media/arts/whatever types che “vedono gente fanno cose” in maniera inesorabilmente, rigorosamente, spasmodicamente “cool”.

Quest’ossessione con l'”essere cool” è un segno dei tempi. Certo, lo si voleva essere anche in passato: ma mai come in quest’ultimo decennio, le subculture giovanili tradizionali (un tempo rozzamente riassumibili nella triade musicale punk/goth/metal e rispettivi sottogeneri) hanno cessato di avere la musica come propria ragion d’essere, per lasciare il posto a una nebulosa ibridazione tanto caleidoscopica (leggi indefinita) culturalmente quanto musicalmente generica (leggi insipida).

Da elemento pur imprescindibile, ma connesso ad altro, lo stile è ora diventato un tirannico leit-motiv la cui preponderanza ben si accomoda nel vuoto lasciato da altri contenuti, persisi chissà dove.

E se, ancora una volta, il termine indie  – come una nube di cenere del vulcano islandese dal nome un po’ meno impronunciabile di quello dell’anno scorso – , “circonfonde” tutti i luoghi di questo discorso rendendoli disperatamente analoghi, il twat (ormai, lo ribattezzerei Twatter) di Shoreditch/Hoxton ha aggiunto al suo CV una serie di caratteristiche estetiche e stilistiche che relegano la musica decisamente in secondo piano.

Queste caratteristiche furono per la prima volta schizzate in modo esilarante dalla fanzine in questione; ma se allora Shoreditch era un posto in East London battuto da drappelli di Twatters relativamente contenuti, adesso è diventata una vera e propria Twat Republic, che si spinge ormai fino a Bow (luogo a suo tempo molto white trash dove il sottoscritto ha vissuto per dieci anni quando Dizzee Rascal e Amy Winehouse erano ancora alle medie), portandosi dietro l’obbligatorio cortège di organic café, formaggerie francesi, pizzerie italiane a taglio, negozi di modernariato cheap  (a prezzi folli) eccetera.

Tanto da aver stimolato operazioni come quella sotto, che, pur nella loro innegabile volgarità, tratteggiano in modo a volte irresistibilmente comico l’identikit di una figura socioculturale giovanile chiaramente bianca e middle class che ha ormai definitivamente accantonato  politica, musica (intesa come questione di vita o di morte) e altre devianze giovanili affogandole in una marea di skinny jeans, occhiali retro, ciuffi, zucchetti di lana, barbe, mocassini e flanelle.

La differenza era che all’epoca, negli anni beati della finanza blairiana, i lavori nei media c’erano e le riviste aprivano a ritmo di due alla settimana. Adesso, il quadro è un tantino mutato, aggiungendo una nota grottesca a tutto il sembiante.

Have a laugh (di seguito, il testo)

Got on the train from Cambridgeshire
Moved down to an East London flat
Got a moustache and a low cut vest
Some purple leggings
and a sailor tat
Just one gear on my fixie bike
got a plus one here for my gig tonight
I play synth…
We all play synth
20-20 vision just a pair of empty frames
Dressing like a nerd although i never got the grades
I remember when the kids at school would call me names
Now were taking over their estates
woah ho

(chorus)
I love my life as a dickhead
All my friends are dickheads too
come with me lets be dickheads
(havent you heard?)
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool cool cooooool

Polaroid app on my iphone
taking pictures on London Fields
up on the blog so everyone knows
were having new age fun, with a vintage feel
coolest kids at a warehouse rave
exclusive list look theres my name
I got in…
You couldn’t get in

never bought a pack of fags i only roll my own
plugging in my laptop at the starbucks down the road
say i work in media im really on the dole
im the coolest guy you’ll ever know
woah ho

(chorus)
I love my life as a dickhead
All my friends are dickheads too
come with me lets be dickheads
(havent you heard?)
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool
being a dickhead’s cool cool cooooool

Loafers with no socks
Electropop meets southern hip hop
Indeterminate sexual preference
Something retro on my necklace