La cosa che scrissi su 300 quando uscì, nel 2007, nel blog che fu di Rockstar.
(for Gigio’s eyes only)
FASCISTI SU SPARTA
Avrei volentieri steso il metaforico velo pietoso sulla questione se 300, il film che Leni Riefenstahl avrebbe diretto volentieri se avesse fatto un corso accelerato alla Microsoft, vada preso sul serio o meno. E, in tutta sincerità, per un momento l’ho fatto: prima di vedere il film, appena uscita la notizia che in Iran stava scatenando la prevedibile reazione non esattamente filosionista. In fondo se i film sono lo specchio della cultura contemporanea, non è forse Hollywood quello della cultura americana contemporanea? Perché trincerarsi dietro il simulacro della fantasia (“è un film fantastico, non va connesso alla realtà”)? Poi l’ho visto. Il primo pensiero è stato che fosse la versione losangelina del film di Guzzanti, Fascisti su Marte, solo con molto software in più e ironia in meno. Solo dopo ho capito che 300 è, in realtà, nonostante il cybergrand-guignol, un film completamente comico.
Premetto una cosa, onde chiarificare preventivamente: ho smesso di giocare ai videogames a vent’anni e di leggere fumetti a dieci; “fumetto d’autore” è uno dei miei preferiti esempi di ossimoro; “24” per me equivale a “due volte 12” e Kiefer Sutherland è il figlio sfigato del molto più bravo Donald; infine, ho riso ininterrottamente durante un episodio del Signore degli Anelli (non ricordo quale): inutile dire che non ho visto gli altri. Sono fuori dell’immaginario contemporaneo? Può darsi. Ma premetto anche che mi piace il cinema. Non dovevo vederlo?
E invece l’ho visto. Ri-premetto che, mentre scrivo, una quindicina di soldati inglesi sono nelle mani dei turpi discendenti di Serse. A questo proposito ricordo a chi ha visto il film in italiano (anche a Roberto Saviano che, sull’Espresso, ha intessuto su questo film un ambiguo panegirico, andandosi addirittura a rileggere Erodoto), che c’è tutto un codice per leggere i kolossal americani in costume in lingua originale. Regola prima: per gli americani tutto ciò che è antico (e infido) parla inglese. Inglese-inglese, intendo, non American English: un classico e giustificato rancoroso retaggio dei gloriosi giorni del 1777, intellettualizzato successivamente da Tocqueville e assimilato da Cecil De Mille & Co. nelle loro opere di macelleria storica. Il protagonista di 300, Leonida, il Jack Bauer di Sparta, è infatti britannico e il resto del cast parla una gioiosa babele di inglese coloniale. L’effetto esilarante è irresistibile. Avrà a che fare con il ratto dei marines? Non lo escluderei (Tony Blair è odiato nel mondo arabo come Bush, ma non gode del rispetto di quest’ultimo).
Ma torniamo al cartone anim… ooops, pardon, al film. Cominciamo da Serse, il supercattivo, stracarico di anelli e orecchini, tanto super da essere alto tre metri: sembra uno di questi studenti (quasi sempre italiani o spagnoli) che vagano qui a Londra per Camden su zatteroni di mezzo metro curvi sotto il peso di trecento tra piercing, extensions e body-modifications e che non avranno mai il coraggio di tornare a casa, tante saranno le sberle che gli darà il padre. Ed effettivamente, 300 è un’orgia visuale che può piacere: i cybercritici eiaculano soprattutto sulla fotografia, i colori, la grandiosità, nemmeno fosse un quadro di Turner. OK ragazzi, ma la cosa bella della Playstation è che potete buttare via la vostra vita giocandoci seduti in poltrona a casa, non c’è bisogno di andare al cinema, attività troppo dispendiosa di calorie, non solo intellettuali. Ma capisco perché 300 vi possa piacere: l’attività neuronale necessaria per seguirlo è pari a zero. Richiede un cervello-joystick con quattro posizioni: avanti, dietro, destra e sinistra. L’etica binaria che sottende 300 opera come il processore di un computer: bianco-nero, buono-cattivo, ecc.: che diamine, l’equipaggiamento migliore per cogliere la complessità del reale. Ma 300 vuole essere capito, e chiaramente: per questo i suoi concetti profondi (frasi del tipo: “Spartans! Enjoy your breakfast, for tonight we dine in Hell!” oppure “This is where we fight. This is where they die” pronunciate da Leonida, oppure aforismi neoliberal come: “Freedom is not free” pronunciate dalla virtuosa moglie di lui) sono urlati autisticamente per tutta la durata del film, spesso commentati da un sagace Huh! Huh! Huh! delle truppe (momentaneamente uscite dalle gabbie e intente a gustare beate le banane del rancio.)
Avrei anche una riflessione da fare sull’originalità di questo film, che è solo relativa alla parte CGI (quella, insomma, fatta al computer da un programmatore grasso, calvo e con gli occhiali, tutto il contrario degli opliti). Il resto è un plagio del Gladiatore, e pure fatto male: Leonida (Gerard Butler) è un Russell Crowe dei poveri, che urla come un matto senza avere un’unghia della terribilità del Maximus di Crowe. La scena finale, nel biondo grano pettinato dal vento della democrazia salvata è anche copiata dal film di Ridley Scott. Ma questo Frank Miller (autore del “graphic (hahaha) novel” da cui è stato tratto il film) non aveva una fantasia prodigiosa? Inoltre, Miller ha dichiarato di essere stato “folgorato” da bambino dal film “The 300 Spartans”, pellicola americana del 1962 in cui alla paura dell’arabo teocratico si sostituisce quella del russo comunista. Ebbene quel film, che ho visto giorni fa, non solo sembra Eisenstein in confronto a 300 (quelli erano i bei tempi in cui la propaganda -ista poteva essere anche capolavoro), ma contiene molte battute che Miller ha infilato nel suo romanzo e che sono finite in 300. Come a dire: va bene ispirarsi, ma copiare, no.
Prima di concludere, mi soffermerò ancora un istante sulla colpa maggiore di 300 secondo i suoi noiosi detrattori vetero-politicallycorrect, ossessionati da Godard: che sia razzista e omofobico. Certo, i neocon di Leonida (mannaggia è un peccato che fosse anche il nome di Breznev) sono tutti bianchi e si ergono contro l’orda asiatico-marroncina, che, naturalmente, è molto più numerosa di loro. In più, hanno tutta una serie di mostri deformi e taglia-teste per <i>épater le Spartan</i>: non ci riusciranno, naturalmente. I figli ariani del libero mercato contraggono vieppiù i loro addominali (i modelli delle copertine di Men’s Health sono tornati tutti in palestra, rosi dall’invidia) e mietono frotte di cloni di Ahmadinejad che si lasciano sterminare perché demotivati dalla carriera nel settore schiavile (prologo naturale dello statalismo burocratico dell’impero sovietico). Smettetela di vedere il razzismo dappertutto, voi pigri omosessuali europei, e lasciateci trascinare il fardello dell’uomo bianco: ci siamo rimasti solo noi americani a farlo (oltre ai padani).
E per quanto riguarda l’omofobia? Che stupidaggine: nonostante ci provi, a prendere in giro quei pedofili degli ateniesi, Leonida Rumsfeld e i suoi – con i loro costumini, gli addominali ben oliati e la prolungata sosta alle sulfuree terme-opili lontano dalle mogli virtuose – sono un vero e proprio sogno (omo)erotico. Fassbinder avrebbe senz’altro apprezzato. Con buona pace di Saviano.