David Bowie è stato un idolo dei miei teenage years. Nel secolo scorso marinai il liceo per andare alla conferenza stampa che fece, mi pare al Piper, in occasione del Glass Spider Tour, il (purtroppo brutto) tour del (purtroppo altrettanto brutto, uno dei suoi peggiori) album della carriera del Duca bianco, Never let me down.
Era il 1987 e il primo suo concerto in terra italica. Dopo ore di fila ci fecero entrare, saremo stati un centinaio. Suonati live un paio di pezzi, Bowie avrebbe risposto alle domande del pubblico: tutti con le mani alzate come pulcini col becco spalancato che aspettano che la madre li imbocchi, lo staff del locale pronto a soccorrere potenziali svenimenti, l’atmosfera da micidiale campo elettrico. La prima volta di David Bowie. In italia, a Roma. Erano gli anni d’oro delle abbuffate di promoter come David Zard: Bowie stesso si lamentò del fatto che i manifesti recassero il nome di Zard più in grande del suo. Ma questo non ci interessa.
Ebbi un tuffo al cuore quando tra le centinaia di mani alzate, con il fare teatrale che lo contraddistingue, fingendo di scrutare il mare in tempesta, indicò proprio me, che gli facessi la mia domanda. Tirai fuori il meglio del mio scarso inglese per chiedergli come mai avesse aspettato tanto tempo prima di fare un live a Roma, (all’acusticamente orribile Palaeur, che per noi era il Mausoleo del Rock). Non ricordo bene cosa rispose, (qualcosa tipo “perche non mi avevate ancora invitato”) ma fui folgorato dal fatto che avesse scelto di rispondere a me. Schizzai subito all’uscita di scuola, a rivendermi la prodezza, i piedi pettinavano l’aria. Mai come allora capii la necessità del non andare a scuola tutti i santi giorni: peraltro, un’occorrenza non rara di quei tempi.
Non ho mai intervistato Bowie, farlo significherebbe subire la sindrome del fan, quell’appiccicosa e dolciastra condizione che ti impedisce di fare una bella intervista. Ma ci tengo sopra ogni cosa. Bowie è un colosso della cultura popolare, un chiaro fenomeno di postmodernismo, un sublime ladruncolo di idee altrui, capace di farle funzionare meglio dei legittimi autori. È sparito per questioni cardiache da qualche anno, è impossibile, dicono, che torni su un palco.
Per questo stasera sarò incollato su BBC 2 che trasmetterà immagini inedite di una sua performance di “The Jean Genie” un pezzo torrido e sexy come pochi altri, da Aladdin Sane (1973) inizio del periodo post-Ziggy, dagli archivi di Top of the Pops. È molto difficile esagerare l’influenza che Bowie ha avuto, e sta avendo tuttora, sulla musica pop. Il termine, abbastanza insopportabile, di “icona”, che viene usato a vanvera per qualsiasi sciampista (massimo rispetto per le lavoratrici e i lavoratori dell’industria delle acconciature) nel suo e pochi altri casi trova sacrosanta legittimità.
Se potete, guardatevelo stasera, 8:30 ora italiana. Se non potete, vi lascio con una sua recente esibizione da Jools Holland del 2002, per capire che livelli può raggiungere il carisma su un palco.
Quel riff. Dio, quel riff.