Giancarlo Menotti (1911-2007), il compositore per il quale ho avuto la fortuna di lavorare, ricevette svariate onorificenze, tra cui quella di Cavaliere di Gran Croce, Ordine al Merito della Repubblica Italiana e la Medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte. Le chiamava “le patacche”, con malcelato disprezzo. Anche se poi nessuno come lui sapeva indossare uno smoking per andare alle serate di gala, una cosa, questa, che gli procurava grande, altrettanto malcelato piacere.
Ma da artista fondamentalmente apolide, non poteva non vedere quel qualcosa di grottesco/farsesco che sta alla base di qualunque onorificenza pubblica, Statale. Per un artista è forse il massimo riconoscimento, eppure anche il momento in cui tutto ciò che si è fatto viene sterilizzato, ufficializzato, di fatto neutralizzato. Thomas Bernhard ha scritto cose stupendamente caustiche sulle onorificenze di Stato (come anche sui premi letterari, vedere il sublime Nipote di Wittgenstein e, più recente, I miei premi (Adelphi 2009) e fece giustamente scalpore il suo discorso in occasione della cerimonia di conferimento del Premio nazionale austriaco per la Letteratura, nel 1968, una cui traduzione (in inglese) si trova qui.
Tutto questo per sottolineare quanto ricevere un premio di Stato alla fine della carriera rappresenti anche l’ormai avvenuta digestione, metabolizzazione (e deiezione) del lavoro di un artista, soprattutto se questo lavoro è stato segnato da un percorso di critica. Nonostante questo, risulta irrinunciabile per molti. Ma non per tutti.
È fenomeno particolarmente visibile qui in Gran Bretagna, luogo dove le coabitazioni consensuali di medioevo e post/meta/transmoderno continuano con un successo altrove semplicemente irriproducibile. La regina sta per celebrare il proprio giubileo di diamante in un crescendo di esondante lealtà dei propri sudditi e, con una frase che sembra uscire dritta da un dialogo di Buñuel, dichiara che si “impegn[a] a continuare a servir[li]”.
Mi è parso dunque appropriato riflettere sulla pubblicazione della lista di coloro che qui hanno rifiutato le patacche britanniche, che in quanto elargite da un sovrano che ha come motto “Dio e il mio diritto”, da centinaia d’anni sul trono di un paese che appena un secolo fa era ancora padrone del mondo suonano assai più convincenti e prestigiose di quelle della schettiniana Repubblica Italiana.
Le motivazioni sono varie, per carità. Non tutti la pensano come il poeta Benjamin Zephaniah.
Parlar male dell’italia e degli italiani è così semplice e scontato che il nobil blasè Giancarlo ti bacchetterebbe le manone
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ma cevto
le grida di dolore (o di scherno) si sentono solo quando vengono dall’esterno, vero o presunto.
le nazioni sono invenzioni
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