Cameron Flop

Un Giubileo senza giubilo, quello di David Cameron. Più scuro del cielo sopra la regata sul Tamigi di domenica: a metà mandato, il premier britannico si ritrova con l’economia immobile come una sfinge, lo scandalo delle intercettazioni che lo aspetta al varco, l’isolamento crescente in Europa. Tanto che per la prima volta in due anni i laburisti potrebbero vincere davvero le elezioni e il vilipeso Ed Miliband essere un credibile Primo ministro. Dopo un periodo di dominio assoluto nei sondaggi, i conservatori si trovano improvvisamente quattordici punti sotto al Labour: al 31 per cento, mai così bassi dal 2004. Le recenti elezioni amministrative li hanno falcidiati, con 405 seggi persi. Il gradimento personale di Cameron è a -26 per cento; il 50, il 58 e il 68 per cento del campione rispettivamente lo considerano debole, non in grado di controllare il governo e out of touch, incapace cioè di cogliere l’umore del Paese.  Unica nota positiva, la vittoria di Boris Johnson, rieletto al secondo mandato consecutivo come sindaco di Londra e il fatto che Miliband non prosperi a sua volta nei sondaggi (è a -28; fonte: YouGov).

Colpa soprattutto della recessione. La cura di tagli della coppia Cameron-Osborne, sempre più isolata, sembra ormai frustare un cavallo morto. Né la fiaccola olimpica, che zigzaga per il Paese grazie a illustri tedofori, né gli street parties per il Giubileo di diamante di Elisabetta II hanno alleggerito gli animi. L’economia britannica si è contratta del 2 per cento nei primi tre mesi del 2012, con un deficit lo scorso aprile pari a 12.4 miliardi di sterline; il debito pubblico ammonta a oltre un trilione di sterline (1006.3 miliardi, pari a circa il 65 per cento del Pil); i senza lavoro sono circa 2.63 milioni, circa l’ 8.2 per cento della popolazione economicamente attiva (fonte: Office for National Statistics). Il debito privato ammonta a circa un trilione e mezzo di sterline (1.458 miliardi): ogni giorno andrebbero in bancarotta circa 314 persone, secondo una stima dell’organizzazione Credit Action.

No, non sono dati da festeggiare con una caraffa di Pimm’s, il long drink estivo posh per eccellenza. Ci sarebbero anche lo scandalo delle intercettazioni telefoniche, che lo vedrà interrogato il prossimo 14 giugno in diretta televisiva da Lord Justice Leveson – giudice eponimo dell’estenuante inchiesta sull’etica del giornalismo nazionale – per difendere il compromesso ministro della Cultura Jeremy Hunt, nonché la versione aggiornata di una biografia, che lo vorrebbe troppo incline al riposo e a distrarsi con l’Ipad, i film (lo hanno ribattezzato DVD Dave) il tennis e generose libagioni nel weekend.

Il più giovane premier conservatore della storia, con guizzi liberal (coscienza ecologista, larghe vedute sui diritti gay) perfetti per attrarre le giovani generazioni; abile comunicatore, ma dal passato dorato della vecchia guardia Tory (studi a Eton, famiglia di banchieri) sufficiente a rassicurare l’ortodossia del partito: in Cameron, i Tories hanno finalmente trovato il loro Tony Blair. Un leader dinamico, capace di liberarli una volta per tutte dall’immagine di arroganti spregiatori del volgo e di traghettarli finalmente nell’universo videocratico del Ventunesimo secolo. Cameron va in bici, gioca a tennis, ama la musica pop: ai tempi della candidatura disse che il suo album preferito era addirittura The Queen is dead degli Smiths, ora opportunamente sostituito con il più innocuo The dark side of the moon dei Pink Floyd. Ama il calcio, tanto che allo scorso G8 a Camp David, si è abbandonato a un’esultanza quasi sfacciata accanto ad una terrea Angela Merkel mentre il Chelsea  diventava campione d’Europa sconfiggendo ai rigori il Bayern (anche se tifa Ason Villa). A volte tanta sbandierata familiarità con la cultura pop lo tradisce. Come nel caso degli SMS scambiati con l’ex zarina di News Corporation Rebekah Brooks: una corrispondenza di telematici sensi che firmava LOL, convinto di scrivere “lots of love”. Peccato significasse “lots of laughter”, quasi uno sghignazzo.

Senza contare che nel clima economico attuale il flirt con il progressismo è un lusso insostenibile. I contestatori interni, che vogliono abbandoni le “bislacche” politiche liberal, come il matrimonio gay e la riforma della Camera dei Lords, alzano la voce. “[Cameron] è sotto la pressione della destra, che non ne vuole sapere dell’Europa; è attento con Merkel, che considera un alleato, ma era pubblicamente schierato contro Hollande, col quale ora cerca di cucire un rapporto amichevole, nonostante siano politicamente agli antipodi”, nota Tom Slater, sociologo dell’università di Edinburgo.

Eppure fino a qualche mese fa l’ex-Etonian sembrava invincibile. Rodney Barker, politologo della London School of Economics, spiega così il declino dell’”erede di Tony Blair”, un appellativo affibbiatosi dallo stesso Cameron: “La prima impressione era di un leader giovane piacevole ed eloquente: ma da quando è al potere va sbiadendo. Emerge sempre più come una persona suscettibile, dal brutto carattere: cosa che per un uomo politico in una democrazia proprio non va.” Tutta acqua al mulino di un avversario “Ancora al lavoro per conquistare appieno il ruolo di leader dell’opposizione. Ed Miliband sta costruendo un rapporto con Cameron che somiglia molto a quello che aveva lo stesso Cameron con Gordon Brown: il Labour ha trovato finalmente il modo di provocare e dar fastidio ai conservatori.”

Complice la crisi naturalmente, nella quale la Gran Bretagna è ripiombata dopo aver dato segni di ripresa nel 2010, nonostante l’austerity applicata con ferrea determinazione dal cancelliere Osborne, amico (a Oxford frequentavano assieme a Boris Johnson il famigerato Bullingdon Club, fraternità goliardica dal cospicuo tasso etilico) e grande alleato politico nel partito. “Sta succedendo quello che molti avevano previsto all’inizio della politica economica dei Tories. Non è possibile creare crescita economica soltanto tagliando la spesa pubblica. Minando le risorse delle tue entrate aumenti il debito”, continua il professore. E più che di tagli, si tratta di vere e proprie amputazioni: 490.000 posti di lavoro eliminati nel settore pubblico, via 7 miliardi di sterline in welfare, tasse universitarie siderali (da 3.375 sterline annue a 9.000), una riforma pasticciata della sanità pubblica (in cui i medici condotti dovrebbero trasformarsi in “amministratori” del proprio ambulatorio). Il tutto a fronte di una serie di sgravi fiscali per chi guadagna di più, per scongiurare l’esodo dalla City e l’evasione fiscale: questa finanziaria di Osborne somiglia parecchio a un manifesto per la difesa dei privilegiati in tempo di crisi.

Ciononostante, pur nel montare delle tensioni reciproche lui e Cameron non recedono di un millimetro, ripetendo come dischi rotti il mantra della riduzione del deficit. Una condotta assolutamente in linea con il DNA dei Tories. “Proprio all’inizio del premierato, in un momento di disattenzione, Cameron si lasciò sfuggire che i tagli erano una cosa che avrebbe voluto fare anche senza una crisi economica. Il suo è un programma ideologico neoliberista. La destra, soprattutto in questo Paese, ha sempre cercato di far credere che l’ideologia è cosa altrui, mentre loro sarebbero il partito del buon senso, che fa quello che si deve in modo pragmatico”, continua Barker, mentre Slater giura che il Primo ministro sia “Una Thatcher del XXI Secolo. Come ha detto un deputato Tory l’anno scorso (il Ministro dell’ambiente Gregory Barker, NdR), «Cameron sta cambiando il Regno Unito in un modo che Thatcher poteva solo sognarsi»”. E ora l’austerità assoluta comincia a spaventare anche nel centro-destra. Perfino il FMI di Christine Lagarde, in precedenza entusiasta della condotta britannica (carica ottenuta anche grazie a Osborne), pur lodando la fermezza, ha rilevato la staticità generata dall’attuale politica economica, invitando a formulare un “piano B” nel caso l’austerity non riesca a sbloccare la situazione.

E poi c’è la schizofrenia controllata nei confronti dell’Eurozona. Se da una parte è costretto a fare la voce grossa, invitandola ripetutamente a decidere se “farsi o disfarsi” rispetto all’Euro, a stabilire la sorte della Grecia, dall’altra simili esortazioni finiscono per aumentare l’insofferenza dell’UE, che resta pur sempre acquirente del 40 per cento delle esportazioni del Regno Unito. Cameron deve continuare a dare l’impressione di avere ancora un ruolo di primo piano in Europa, pur essendosene allontanato. Ma questo non placa l’insofferenza della destra euroscettica del partito. Secondo un altro recente sondaggio citato dall’Independent, almeno uno su tre elettori che hanno votato conservatore alle ultime elezioni sarebbero pronti a dare il proprio voto agli arci-isolazionisti dell’UK Independence Party (Ukip) di Neil Farage, un partito anti-Europa solo qualche anno fa praticamente invisibile (la destra razzista del Bnp è crollata malamente alle amministrative). Tutto il Paese è investito da un’ondata di euro-diffidenza, sulla quale soffiano come mantici i tabloid, al punto che indire un futuro referendum sulla partecipazione all’Unione Europea sembra una scelta ormai obbligata per tutti, compreso il Labour. “Non credo che il partito conservatore, come l’economia britannica, trarrebbero alcun vantaggio dall’inasprire i toni con l’Europa”, continua Barker. “Piuttosto, trovo straordinaria la capacità di sopportazione di questa rispetto alle continue lezioncine sulla moneta unica impartitele da chi che non ne fa nemmeno parte. Se Cameron deve fare dichiarazioni anti EU e anti moneta unica per calmare i suoi backbenchers è perché si trova non in una sola, ma in due coalizioni: quella fra conservatori e i Lib Dem, e poi quella all’interno del partito conservatore tra i modernizzatori e la vecchia guardia del partito: tra le due vi sono divergenze altrettanto vaste”.

Un altro potenziale problema per il leader Tory arriverebbe dell’interno: la rivalità con l’appena rieletto Boris Johnson, l’unico politico nel partito col vento del gradimento in poppa. “Johnson potrebbe aspirare alla leadership, benché abbia vinto le elezioni almeno in parte per le stesse ragioni per cui le aveva vinte Ken Livingstone: entrambe sono riusciti a prendere le distanze dai rispettivi partiti” – conclude il politologo.

Cameron ha costruito la vittoria elettorale soprattutto su due slogan: quello di “broken society” e quello di “big society”. La “grande” società, capace di mobilitare le risorse dei singoli alleviando l’intervento statale, contro quella “fratturata”. Concetti abbastanza vaghi, di cui Tom Slater ha studiato la genesi. “Broken society è un’invenzione retorica di un think tank fondato da Iain Duncan Smith, l’attuale ministro del welfare, nel 2004 ed è diventato onnipresente dopo i riots della scorsa estate, insistendo sulla coesione familiare e sulla presenza dei genitori come antidoto alla violenza nelle zone povere”. Ma se la risposta dello Stato ai riots è stata dura, con oltre 2000 arresti, il governo non ha usato lo stesso zelo per punire i responsabili della crisi finanziaria. Allo stesso tempo, il virulento attacco dei tabloid alle frodi dei cosidetti “scrocconi” (scroungers) di benefits polarizza l’opinione pubblica a favore dei tagli. Ancora Slater: “Mentre big non convince, nemmeno in ambienti vicini a Cameron, l’idea di una società broken sembra funzionare: la recente riforma dello stato sociale, così dura nei confronti dei meno abbienti, dei disoccupati e soprattutto dei disabili, si è dimostrata la politica di maggior successo di questo governo.”

Passata l’autocompiaciuta sbornia giubilare, ora il Paese corre verso il circo delle Olimpiadi. Sarà un’estate torrida, nonostante il Pimm’s.

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È un autentico pastyccio, una commedia degli errori che si protrae dall’ultimo budget dello scorso marzo. La Cornish Pasty, fagotto di sfoglia salata ripieno di carne e verdura, è una colonna portante della dieta della Cornovaglia e serviva a sostentare i minatori della regione nel loro durissimo mestiere. Street food assai popolare, in tutti i sensi, è venduto ovunque come take-away. Nella finanziaria lacrime e sangue di George Osborne era previsto gli venisse applicato il VAT, l’equivalente dell’Iva, per il 20 per cento del prezzo. Una misura che allineava la gran Bretagna alla maggior parte degli altri paesi europei, ovviamente intesa a incrementare il gettito.

Ma il provvedimento ha provocato la levata di scudi dell’industria alimentare del Sud-Ovest, oltre che dell’uomo della strada. La stampa di centrosinistra ha ferocemente ironizzato su un cancelliere avvezzo alle ostriche che spietatamente tassava il cibo dei poveri.  Interrogato da un deputato Labour in parlamento, Osborne ha ammesso di non ricordarsi nemmeno di averne mai mangiata una, di pasty.  Roba da Maria Antonietta e brioche. A poco è servito il soccorso di Cameron, che ha coraggiosamente dichiarato di averne mangiate, lui sì, qualche volta. Serviva un dietrofront.

Che il cancelliere ha compiuto mestamente, non senza complicare in modo surreale la cosa. La Cornish pasty infatti, torna ora ad essere immune dall’odioso balzello (50 pence) ma solo se mangiata appena uscita dal forno, oppure fredda: se riscaldata, torna a costare mezza sterlina in più. Queste linee guida ne contengono altre, di complessità non-anglosassone: il concetto di temperatura ambiente per esempio, assurto a discriminante tra quelli soggettivi di caldo e freddo, è a sua volta un bel po’ soggettivo. A completare il mesto voltafaccia, il governo ha poi frettolosamente ritirato altri due aumenti di VAT: su caravan stanziali e su enti di beneficenza.

Un’inversione a U rovinosa per Osborne e naturalmente per Cameron, entrambi incistati su un’austerity che ha incagliato l’economia. Il primo è addirittura scomparso dai media, chiuso in uno sdegnoso silenzio. Chissà, forse anche per meditare su quanto stava infliggendo ai suoi connazionali. Alla Cornish Pasty calda, infatti, si ha qualche chance di sopravvivere; fredda, uccide.

(qui, e qui il pezzo in edicola da ieri)

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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