Lo schianto, il lamento.

In un panorama “alternativo” incapace di liberarsi dalle virgolette, sono gli unici ad averne avuto il fegato. Il loro ritorno dopo dieci anni di silenzio non sarà forse all’altezza dei cataclismi emotivi di un tempo, ma la luce bianca della liberazione traspare ancora dai loro immensi crescendo. Personalmente, non ho mai dubitato che fossero gli unici davvero capaci di un travolgente percorso etico, estetico e drammatico. Senza i piagnistei di un cantante, senza la costrizione di una forma carina. Mogwai e Explosions in the Sky? Mah.

Ieri ho letto quest’intervista al Guardian di qualche giorno fa e non ho potuto non smettere di fare quello che stavo facendo per tradurla lì per lì. È un lavoro fatto di getto, non renderà forse la poesia ideologica del linguaggio ma chi se ne frega: ho pensato fosse importante renderlo disponibile in italiano immediatamente: non si leggono cose del genere tutti i giorni nella stampa mainstream.

I Godspeed you! Black Emperor sono una delle poche band veramente politiche degli ultimi quindici anni, capaci di partecipare alle lotte della loro città, Montreal, i cui altri esponenti (i talvolta irritanti Arcade Fire, per esempio) in confronto sono roba da boutique. Un collettivo capace di un discorso lucido ed estremo come solo forse i Crass vent’anni prima di loro. Inviterei a riflettere particolarmente sulla scintillante dichiarazione d’intenti in quello che un certo gergo definirebbe “mission statement”, nella consapevolezza della quale sono cresciuto e che mi ha violentemente commosso leggere in una formulazione dalla chiarezza così accecante: “O fai musica che intrattiene il re e la sua corte, oppure fai musica per i servi fuori le mura.”

E penso a Eliot: “E’ questo il modo in cui finisce il mondo. Non già con uno schianto ma con un lamento”. Viviamo in tempi apocalittici e il loro oceano di suono che preme, che preme fino a rompere continuamente la diga della nostra indifferenza, riesce a dire il lamento del mondo.

Per me, i Godspeed sono sono più che soltanto una band, sono un’idea. È altrettanto vero per voi? E se qualcuno di voi non si trovasse più d’accordo con quell’idea? Più metaforicamente, chi sono, oggi, i Godspeed? In che modo sono cambiati i membri della band in questo periodo di assenza dalle scene?

Siamo una band. Non siamo “solo una band”. Siamo noi contro il mondo, chiaro? Come tanti poveri scemi prima di noi. Le band restano stritolate nell’ingranaggio prima che lo sia il resto del mondo. E mentre vengono stritolate in quel modo, cantano canzoni carine.

Il fatto, noioso, è che passiamo la maggior parte del nostro tempo impegnati nel compito del momento, provare, comporre, fissare tour. Facciamo del nostro meglio per andare d’accordo, mantenere un impegno nei confronti nostri e in quelli del lavoro condiviso. Pensiamo che la maggior parte delle cose con le quali ci arrabattiamo siano le stesse con cui si arrabattano innumerevoli altri gruppi: niente di speciale, niente di interessante. È solo che prendiamo decisioni basandoci su un ostinato calcolo particolare. È quel piccolo tintinnio che inseguiamo quando ci sbattiamo nella nostra piccola sala prove. È solo che ci piacciono i suoni leggermente stonati. È solo che sappiamo che la musica è solo una cosa che la gente fa in mezzo a lotte più grandi. E siamo sempre in lotta contro i mulini a vento, temendo di essere sbalzati a momenti dalla sella.

Abbiamo cominciato a fare questo rumore assieme da giovani e scannati, l’unica cosa di cui eravamo sicuri era che gli autori professionisti parevano mille miglia lontani e che a nessuno fregava un cazzo della roba che ci piaceva, a parte noi. Parlare di punk rock con giornalisti freelance, allora come oggi, era come scorreggiare a una cerimonia di beneficienza, una cosa che ti faceva cacciare via dalla festa.

Sapevamo che c’erano altre persone che la pensavano come noi e volevamo aggirare quelli che vedevamo come ostacoli superflui per trovarle da soli. Eravamo dei bastardi timidi e orgogliosi e così interagivamo con il mondo. Il che significava decidere che non avremmo avuto nessun cantante, nessun leader, non avremmo dato alcuna intervista, che non ci saremmo fatti nessuna foto stampa. Suonavamo seduti e con dei film proiettati sopra di noi. Niente pose rock. Scrivevamo brani lunghi o corti a piacimento. Registrazioni di feedback in cantina con i filtri delle sigarette ficcati nelle orecchie. Nel frattempo le nostre vite private erano un casino.

E così siamo partiti in tour appena possibile, è lì ci siamo spezzati il cuore, come può succedere solo ai veri credenti. Se dai troppo filo a un aquilone, finisce che ti si impiglia sulla luna.

Qualunque idea politica avessimo derivava dal non avere mai un soldo e dal vivere in un’epoca in cui secondo la narrativa dominante tutto andava bene e che tutto sarebbe andato bene, per sempre. Era naturalmente una bugia. Ma Clinton era presidente, il muro di Berlino era caduto, l’economia era in boom e internet era una cosa nuova e luccicante che ci avrebbe liberati tutti. I guardiani osservavano il regno, dichiarando che tutto andava bene. In quel mentre, tanti di noi erano estromessi, guardando da fuori tutto quell’oro.

Così, quando con questo frastuono cominciammo a pagarci l’affitto, cominciammo anche a sentirci sotto parecchia pressione interna perché restassimo fedeli alle nostre insoddisfazioni di adolescenti (non nel senso di ingenui o immaturi, ma in quello di puri e irrimediabilmente senza diritti). E così prendemmo decisioni che irritarono parecchi. Eravamo appena in grado di spiegarci. Non ce la cavavamo bene con chi proveniva da fuori, eravamo abituati a parlare a quelli come noi. Tutti avevamo passato gli anni della formazione come degli outsider e un po’ persi. Non avevamo religioni da urlare se non noi stessi, tutti assieme, sempre. E urlammo quella religione in un’epoca in cui quel genere di rumore era etichettato come onesto, ingenuo e noioso. E noi eravamo onesti, ingenui e noiosi. E ancora lo siamo.

C’è una cosa che in molti non hanno capito di noi: quando cominciammo, la gioia era parte di molto di quel che facevamo. Cercavamo di fare musica pesante, gioiosamente. Erano tempi duri, ma la linea del partito era che tutto andava bene. C’erano molte band che vi reagirono, facendo una musica “pesante”, che si lamentava ma che suonava falsa. Detestavamo quella musica, detestavamo l’espressione di privilegio di quell’angoscia esistenziale, volevamo fare musica come quella dei Friends and Neighbours di Ornette*, un rumore gioioso, difficile, che riconosceva la difficoltà del momento ma la respingeva allo stesso tempo. Una musica che parlasse di noi tutti assieme, o niente. Detestavamo che ci considerassero negativi. Ma sapevamo che un problema altrui. Per noi ogni pezzo cominciava con la tristezza ma verso la fine puntava al cielo, perché come fai a trovare il paradiso se non prendendo atto della tristezza che c’è?

Ma ora che i tempi si sono fatti duri ecco un sacco di band reagire all’attuale pesantezza preferendo i tempi della festa, come una bizzarra cazzata a base di volontà di potenza tipo Scientology, batti quel charleston con il pugno chiuso finché non siamo in paradiso, fino al down della domenica mattina. Buone vibrazioni insicure che si intravedono sotto la maglietta American Apparel di un ventiduenne in un locale dove puoi ballare solo dopo che hai pagato una tariffa di 10 dollari per ascoltare l’iPod di qualche re di internet.

Così ora canticchiamo le nostre gioiose tensioni in opposizione a tutto questo. Le cose non vanno bene. E la musica dovrebbe riguardare le cose che non vanno bene, o non esistere affatto. Le migliori canzoni di sempre sono quelle che seguono quella linea. Noi cerchiamo solo di avvicinarci a quella perfezione. Guidiamo tutta la notte solo per avvicinarci a quel perfetto suono gioioso, solo per baciare l’orlo di quell’indumento. Amiamo la musica, amiamo le persone, amiamo il rumore che facciamo.

Chi sono oggi i Godspeed? Chei è rimasto, chi se ne è andato, chi è arrivato e perché è arrivato?

La formazione dei Godspeed è la stessa dal 1994. Piccoli cambiamenti, Cello Norsola non suona più con noi. E Bruce, il batterista, se n’è andato l’anno scorso così da poter passare più tempo con suo figlio. Timothy è il secondo nuovo batterista. Siamo strafelici.

Può la musica politicizzata cambiare qualcosa? Lo volete? E quell’intenzione di cambiamento è rivolta all’esterno o all’interno? Un cambiamento interiore o di struttura sociale? In che misura Montreal e la sua politica fanno di voi le persone che siete e la band che siete? Avete una narrativa in mente per la vostra musica? Se chi vi ascolta sente una narrativa differente rappresenta per voi un problema?

Cos’è la musica politicizzata? Tutta la musica è politica, no? O fai musica che intrattiene il re e la sua corte, oppure fai musica per i servi fuori le mura. A questo serve la musica (e la cultura), giusto? Distrarre, opporsi, o tutt’e due le cose allo stesso tempo? Siamo così in tanti a sapere già che quella roba è fottuta.

In più di un aspetto fondamentale è più facile trovare una causa comune che non 10 o 20 anni fa. Basta parlare a sconosciuti nei bar o per strada e ti rendi conto che ci siamo tutti dentro fino al collo, no? Solo che adesso siamo più numerosi che mai. È un fatto. Ogni giorno diventa un po’ più difficile fingere che vada tutto bene. I ricchi continuano a ricevere di più e noi di meno. Post-9/11, post-7/7, c’è uno stato di polizia che dà giri di vite giorno dopo giorno, e nella nostra quotidianità assistiamo ai risultati avvilenti di un’autorità dissoluta – imprevisti stop al traffico, infrastrutture fatiscenti, burocrati corrotti e poliziotti lattanti con le loro meschine intrusioni. Le nostre città sono senza un soldo, mettono toppe di asfalto su toppe di asfalto, le nostre foreste abbattute e vendute per fare giornali soltanto per dirci del traffico nel quale siamo bloccati. Prendi una multa e passi la giornata in fila. Il poliziotto spara al ragazzino, i ragazzino spara al ragazzino, gli homeless muoiono aspettando una visita medica, gli anziani stesi su un letto d’ospedale mentre una burocrazia sfasciata li deruba di quel che resta della loro dignità. La gente viene in fuga da noi fuggendo il casino che abbiamo fatto nei loro paesi e noi li trattiamo come ladri. Soprattutto sembra che tutto quel che ami ti sarà strappato via. Accendi la radio ed è un fottuto film dell’orrore, le cose che i nostri governi fanno in nostro nome, solo per ingrassarsi del nostro declino costante. Nel frattempo, la maggior parte di noi continua a sbattersi in una terribile alienazione, maltrattati, lasciati nella colpa e nella menzogna. Campi in fiamme e un cielo pieno di drone. Il frutto marcisce sui tralci, e milioni muoiono di fame.

Ci troviamo dunque ad uno snodo storico in cui è chiaro che qualcosa deve succedere, il problema è che le cose potrebbero prendere qualsiasi piega. Siamo entusiasti e terrorizzati, ci sediamo e cerchiamo di produrre gioioso rumore. ma, cazzo, facciamo musica strumentale il che significa che dobbiamo lavorare duro per creare un contesto che […] indichi la strada verso la resistenza e la libertà. Altrimenti non è che un rumore carino in sella a qualunque cavallo si presenti. La maggior parte delle volte tutto quello che sappiamo è che non giocheremo a questo stupido gioco. Qualcuno ci dice che siamo speciali, noi diciamo: “col cazzo che siamo speciali”. Qualcuno ci chiede che cosa significhino le cose che abbiamo fatto, noi rispondiamo trovatelo da te il significato, gli indizi sono tutti lì. Pensiamo che la testardaggine sia una virtù. Sappiamo che questo può essere frustrante. Va bene. Non ragioniamo tanto in termini di narrativa. Cerchiamo di suonare arrangiamenti che sono un po’ fuori della nostra portata. Cerchiamo di assicurarci che le canzoni risultino autentiche, oppure niente. Montreal è un posto che perde continuamente di fascino. È una città corrotta in una provincia corrotta, dove in qualche modo la luce squilla comunque forte. Nonostante tutto, tanti piani folli concepiti, tanti miracoli minori. La polvere di questo posto ci si è seccata nel cuoio capelluto e nelle unghie: non ci sarebbe una band se non fosse per questa adorabile, marcia città.

Nel frattempo questa città è recentemente esplosa, ma ancora non si vede vittoria. Questa provincia è ancora corrotta e il nostro sfasciato paese guadagna il suo sporco petrolio carico d’oro. Grazie al quale i ricchi si arricchiscono ancora di più, e il resto di noi muore lentamente.

Siamo nati tutti il peso di un’autorità da quattro soldi. È un miracolo che così tanti di noi ce l’abbiano fatta attraverso l’adolescenza. La politica è per gli uomini politici e tutti i nostri uomini politici emanano un lezzo di morte, è per questo che si mettono tutto quel profumo e quella colonia, è per questo che indossano sciarpe e cravatte a colori vivaci, proprio per distrarre dal pallore della loro carnagione. Siamo davvero in tanti a voler vivere lontano da quel puzzo, barcolliamo goffamente verso la luce, stupiti che così tanti di noi barcollino assieme così, amen.

Com’è nato questo album?

Siamo tornati assieme dopo dieci anni, abbiamo imparato di nuovo i vecchi pezzi, suonato in un po’ di posti. Non ci saremmo impantanati nel circuito retro come Sha Na Na alla mostra di auto di Windsor. Per cui a un certo punto abbiamo deciso di registrare, è quello che fanno le band. Inoltre, volevamo fissare questa roba nel caso scomparisse ancora. Ci siamo sistemati a Montreal, abbiamo fatto girare i nastri e sperato. L’ultima volta in questo pezzo abbiamo litigato come sorelle gemelle, stavolta lasciamolo correre.

C’è mai stata una volta in cui avete smesso di apprezzare la possibilità di comunicare attraverso la musica? Da precedenti interviste sembra qualcosa su cui avevate dei dubbi. È un fraintendimento e se non lo è li avete ancora?

Diavolo, no, non ci siamo mai stancati di suonare per le persone, ci siamo sempre considerati fortunate di farlo. È solo che il rock business, allora come oggi, è un porcaio miserabile. Soldi buttati, navi in avaria pronte a colare a picco, mentre da qualche parte demoni pigri ridacchiano e contano le mazzette. È come guardare miliardari che pisciano su angioletti. Gli affaristi odiano i fottuti ragazzini e li trattano come roba loro, li mungono come mucche e li conducono da un punto all’altro come forsennati acquirenti da Dollar days.** Nella maggior parte dei casi hai a che fare sciocchi privilegiati che sono del tutto insicuri. Odiano il loro lavoro, amano i soldi e ne vogliono altri. In qualche modo un sacco di giovenche affamate continuano a tornare a quel trogolo volendone ancora. Da qualche parte dentro di se sanno che il latte è avvelenato ma non possono smettere di berne.

Sbattere contro quel muro ti sfinisce, a un certo punto devi smettere altrimenti ti rompi. Inoltre, mentre quella battaglia è importante (perché tutte le battaglie contro questo declino normalizzato sono importanti), la maggior parte del mondo, comprensibilmente, se ne sbatte, si sta facendo del lavoro più importante là fuori, ingiustizie di classe più grandi dell’avidità dell’industria musicale. E la maggior parte di noi in questo mondo sfasciato se la cava appena, per cui ti immergi nei casini di quest’orrido music business deciso a fare la tua parte affinché cambi, ma non cambia niente. Hai vittorie che sembrano immense ma quasi nessuno se ne accorge a parte i ragazzini in prima fila. Te ne preoccupi, fin quando dopo un po’ cominci a sentirti come quella rottura di amico che non riesce a smettere di lamentarsi della sua ex. Succede questo e non vuoi pensarci più a quella Babilonia di sistema. Per cui abbiamo smesso. E poi abbiamo ricominciato.

Ora siamo reduci fortunati, buttiamo sul palco gli amplificatori e suoniamo a testa bassa. Dopo così tanti anni passati a dire no, quei profittatori a noi non ci fanno più caso. Lavoriamo con persone di cui ci fidiamo e che speriamo si fidino di noi a loro volta. Non freghiamo, non siamo pigri, non anteponiamo le nostre preoccupazioni a quelle dei ragazzini in prima fila. Tutto il resto sono interferenze, tutto il resto sono solo molecole di bianco e nero che pattinano su bui schermi televisivi.

Come membro di un ensemble di danza di 10 donne, diretto democraticamente, so bene quanto difficile sia trovarsi d’accordo su tutto. Come funzionano i Godspeed in quanto comunità?

Ti si rompe la macchina e la porti in officina. Un ambiente sporco, cinque meccanici forse, le chiavi di avviamento appese a chiodi vicino al banco. Due macchine sul ponte, una in un angolo, tutte le altre parcheggiate sul retro. Tutto e tutti coperti di grasso, tutti fumano come dei pazzi. Devono aggiustare venti macchine entro le 5, altrimenti il lavoro arretrato spezzerà la schiena a tutti prima di natale. I fornitori di ricambi arrivano circa ogni mezz’ora, portando soprattutto nuove pasticche dei freni o i manicotti, ma a volte paraurti, coppe dell’olio, fari o cinghie della distribuzione.

In una buona officina, tutto questo casino quasi crolla tutto il giorno. I tipi litigano e urlano, non funziona niente e tanto che ci stiamo a fare qui? I cazzo di tubi non si adattano, o il cacciavite scivola e tu perdi la fascetta da qualche parte sotto la macchina. Il sole comincia a tramontare e il pavimento si riempie di lampadine fulminate, guarnizioni usate, olio e sudore, e liquido dei freni.

Chi ha un hungover, chi soffre per amore, chi ieri notte non ha dormito, chi si sente sottovalutato, ma quello che conta è farcela, il lavoro è condiviso e c’è una perfetta, rotta poesia nel battere e nel gridare, il gemito del compressore che torna in vita più o meno ogni cinque minuti.

Tutto sembra impossibile. Ma in qualche modo ce la facciamo. Le macchine funzionano di nuovo. Le macchine partono e se ne vanno. Una giornata dura ma è fatta, e tutto ora va bene. Tutto va meglio che bene. Domani ricominceremo tutto da capo. Tu aggiusti la Volvo, io la Toyota. Calore e rumore. Tutto il giorno tutti i giorni, finché non torna la calma. Aggiustiamo automobili finché non moriremo. Ci piace aggiustare automobili.

Quelli come me vi prendono troppo sul serio?

Probabilmente.

*Coleman (NdT)

** Catena di grandi magazzini statunitense (NdT)

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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