Formule come “un atteso ritorno” non gli rendono giustizia. Per gli amanti dell’elettronica è un autentico secondo avvento: a tredici anni (un eone nell’elettronica) dal precedente “Drukqs”, il nuovo album dell’inafferrabile Aphex Twin, “Syro”, è finalmente disceso fra noi.
Negli anni Novanta, mentre il noioso duello Oasis-Blur monopolizzava l’attenzione, un misteriosissimo producer in forza alla Warp records, etichetta della deindustrializzata Sheffield, spalancava nuovi territori per la dance elettronica.
Originario della Cornovaglia, Richard D. James avrebbe adottato una pletora di nomi con cui pubblicare la sua musica. Il più noto è Aphex Twin. Poco importa che qualcuno arrivasse a chiamarla Intelligent Dance Music (Idm), senza rendersi conto dell’involontaria ironia dell’appellativo. Con una sfilza di album, Ep e collaborazioni multiformi, Aphex gettò un ponte fra il dancefloor e le avanguardie del Novecento: quella “alta” (Ligeti, Cage, Stockhausen) assieme ai più abbordabili colleghi minimalisti americani (Reich, Riley, Glass). Fa tuttora parte di un drappello di brillanti innovatori (soprattutto Autechre e Boards of Canada) in forza sotto la stessa etichetta.
I più arditi navigatori delle galassie cyber-soniche non rimangano delusi: è vero, “Syro” non abbatte alcun confine, preferendo mappare più accuratamente i contorni di territori già noti. È comunque molto appagante: meno spigoloso ed “acido” dei lavori precedenti, meno ostico. Sbiadita l’ossessione per la “jungle”, i beat elettronici dell’oggi quarantatreenne, che vive in Scozia in uno studio meticolosamente costruito secondo le sue esigenze, sono ammorbiditi e più godibili.
Stesse macchine, stesso ghigno insomma. E va benissimo così.