Volente o nolente, l’arte è anche (e soprattutto) un commento alla società che la produce. Ci sono opere che, da sole, riescono a isolare alcuni aspetti del carattere di un’epoca, quel concetto elaborato dalla filosofia hegeliana meglio noto come Zeitgeist, lo spirito del tempo.
Spesso lo fanno senza troppe sottigliezze ermeneutiche. For the love of God, il teschio tempestato di diamanti di Damien Hirst, ad esempio: è un ghigno dell’arte alla propria condizione di ostaggio dell’avidità contemporanea. Quasi una sindrome (estetica) di Stoccolma che non richiede particolari acrobazie interpretative. Di queste opere Allen Jones (Southampton, 1937), uno dei grandi protagonisti della prima pop generation inglese, può vantarne più d’una: lavori che istantaneamente comunicano l’entusiasmo e l’energia con cui la swinging London si lasciava alle spalle il grigiore e l’austerità del Secondo dopoguerra. Il suo “mobilio” voyeuristico-feticista dei primi anni Settanta, a base di manichini femminili curvati a quattro zampe che fungevano da tavoli e sedie, facendo inferocire le donne – femministe o meno – che vi si vedevano umiliate, anticipava la saggistica di una Camille Paglia, o l’avvento di Madonna come delle Spice Girls, fino alle veline nostrane. Basta questo per far pagare un debito oneroso ai vari Hirst che sarebbero arrivati trent’anni dopo. Le “donne-mobile” di Jones, che subivano atti di occasionale, vandalica protesta ancora alla fine degli anni Settanta e che avevano ispirato Stanley Kubrick per il set di Arancia meccanica (il registanon voleva pagarlo, lui cortesemente rifiutò la commissione) sono la ragione principale per cui l’artista ancora oggi è visto come un urticante dissacratore. La mostra che gli dedica la londinese Royal Academy of Arts, di cui è membro dal 1986, vuole sfatare questo cliché. La retrospettiva non segue un impianto cronologico, preferendo stabilire una trama di connessioni stilistiche e tematiche attraverso i suoi circa cinquant’anni di attività. Dopo le grandi mostre in occasione del suo settantesimo e settantacinquesimo compleanno, dedicategli rispettivamente dalla Tate Britain nel 2007 e dalla Kunsthalle di Tubinga due anni fa, la retrospettiva della RA, curata da Edith Devaney, illumina i gangli che nell’opera di Jones aggregano grafica pubblicitaria, dinamismo urbano e, naturalmente, le due correnti non così carsiche che ancora oggi fluiscono nella stragrande maggioranza dell’arte presente: il binomio Warhol/Lichtenstein da una parte, e il magistero duchampiano dall’altra. Eppure, la Chair (la donna-sedia) ha mantenuto tutto il proprio coefficiente provocatorio. Lo testimonia la
recente controversia attorno alla rilettura della scultura di Jones da parte dell’artista norvegese Bjarne Melgaard. Dove però la donna è addirittura nera, tanto per spostare un poco più su l’asticella della provocazione. La famigerata sedia di Allen Jones è stata venduta da Sotheby’s per circa un milione 34mila euro nel 2012. Se si pensa che l’opera, in fibra di vetro, come le altre della serie, fu prima scolpita (da altri) in creta e poi realizzata da un’azienda specializzata nella realizzazione di manichini, la stessa che produceva le riproduzioni esposte al museo Madame Tussauds, il cerchio si chiude: arte contemporanea e intrattenimento di massa hanno la stessa matrice. Fuor di metafora.

