First past the past

3686Una costi­tu­zione non scritta che cia­scuno inter­preta come gli pare, un ese­cu­tivo che fa e disfa come gli pare, un capo di Stato e delle forze armate non eletto col der­rière sul trono fin­ché morte non li separi, una camera alta ere­di­ta­ria popo­lata di nobil­donne e nobiluomini.

Non è la sinossi di un romanzo fan­tasy. Quello bri­tan­nico è soli­ta­mente cele­brato come uno dei sistemi elet­to­rali più anti­chi e inos­si­da­bili, un mec­ca­ni­smo isti­tu­zio­nale capace di coniu­gare feu­da­le­simo e post­mo­derno, il sogno ero­tico delle élite di tutto il mondo, che non a caso man­dano qui i loro figli per­ché impa­rino l’arte di distin­guersi e coman­dare. Ed è riflesso nell’autorappresentazione del Paese, che ha un rap­porto feti­ci­stico col pro­prio pas­sato. Ma se il primo attri­buto è insin­da­ca­bile — l’antichità – ora l’inossidabilità comincia a ossi­darsi. Nel senso che una serie di fat­tori sta met­tendo in seria discus­sione il fun­zio­na­mento strut­tu­rale di una monar­chia costi­tu­zio­nale che — gra­zie soprat­tutto alla sua pro­di­giosa capa­cità di garan­tire l’inalienabilità del prin­ci­pio di disu­gua­glianza – è da sem­pre l’exemplum di chi con­si­dera tale disu­gua­glianza la base del con­tratto sociale.

Il pros­simo 7 mag­gio que­sto sistema sarà messo alla prova come già nel 2010, quando si ten­nero le ele­zioni che hanno por­tato all’uscente quin­quen­nio di coa­li­zione fra con­ser­vatori e libe­ral­de­mo­cra­tici, all’insegna di una feroce impo­si­zione di misure di auste­rità per curare una crisi natu­ral­mente cau­sata da coloro i cui inte­ressi i due par­titi sono lì a difendere.

Ma vediamo meglio il sistema in que­stione. West­min­ster uti­lizza il cosid­detto «first past the post», ossia un uni­no­mi­nale secco che con­sente di bypas­sare agil­mente il rischio del para­liz­zante (leggi: demo­cra­tico) stallo tipico di un sistema pro­por­zio­nale. I seggi sono 650, la stra­grande mag­gio­ranza di essi è in Inghil­terra, la nazione più vasta e che eser­cita, di fatto, un’egemonia sul resto dell’Unione, peral­tro anch’essa messa in peri­co­losa discus­sione dal recente refe­ren­dum scoz­zese. Seguono la Sco­zia con 59 seggi, il Gal­les con 40, e l’Irlanda del Nord con 18. Cia­scun col­le­gio cor­ri­sponde a circa 70.000 elet­tori. Con l’uninominale secco chi ottiene poco più di un terzo dei voti può assi­cu­rarsi una mag­gio­ranza e for­mare così un governo.

Chi vince piglia tutto, insomma. E ci si rivede fra cin­que anni. È così dal primo governo Attlee, dal secondo dopo­guerra. L’impressionante, sostan­ziale con­ti­nuità d’intenti fa i governi Labour e Tory suc­ce­du­tisi nel frat­tempo ha garan­tito l’applicazione di un mani­fe­sto neo­li­be­ri­sta, anch’esso rigo­ro­sa­mente non scritto: quello di una depo­li­ti­ciz­za­zione dell’economia adot­tata poi da tutte le social­de­mo­cra­zie euro­pee e la cui nar­ra­zione media­tica – qui, dove è stata bre­vet­tata in esclu­siva da Tony Blair — ha ormai rag­giunto livelli orwel­liani. Se non fosse per que­sta male­detta crisi, la cui onda d’urto, per quanto fret­to­lo­sa­mente sof­fo­cata con tagli e pri­va­tiz­za­zioni, ora rischia di por­tare anche su que­ste isole l’incubo della demo­cra­zia proporzionale.

La staf­fetta Tory-Labour infatti, ridotti ormai a una sorta di coca e pepsi della dia­let­tica neo­li­be­ri­sta, è insi­diata da ogni parte da una serie di par­titi più pic­coli, cia­scuno espres­sione delle varie spe­ci­fi­cità di un mal­con­tento che ci si ostina a far pas­sare per anti­po­li­tico. Comin­cia­rono cin­que anni fa i Lib-dem, clas­si­fi­ca­tisi terzi nelle scorse ele­zioni. Dopo un bre­vis­simo ten­ten­na­mento, il loro lea­der Nick Clegg, cosmo­po­lita e con­vinto euro­pei­sta a dif­fe­renza di molti suoi col­le­ghi di ogni colore, scelse di get­tare il pro­prio peso die­tro David Came­ron, lea­der che, lo ricor­diamo, quelle ele­zioni non vinse per venti seggi. È stato dun­que solo gra­zie a Clegg che il mini­stro ultra­li­be­ri­sta delle finanze George Osborne ha potuto cac­ciare la sua cicuta in gola agli strati più vul­ne­ra­bili della popolazione.

A distanza di cin­que anni, la pre­ca­ria gestione Clegg del vaso di coc­cio Lib­dem in mezzo alle incu­dini dei con­ser­va­tori è pre­ve­di­bil­mente fal­li­men­tare: il suo par­tito, bru­ciato soprat­tutto da una pro­messa non man­te­nuta — quella di eli­mi­nare le tasse uni­ver­si­ta­rie che invece sono state più che tri­pli­cate (nei paesi a tra­di­zione puri­tana men­tire e non man­te­nere le pro­messe è pec­cato capi­tale, noi cat­to­lici ce la caviamo di solito al mas­simo con tre ave­ma­rie) — rischia l’estinzione.

Nel frat­tempo è suc­cesso molto, mol­tis­simo. L’Unione per un pelo non è colata a picco con l’uscita degli scoz­zesi. E l’incedere sulla scena di tre ex par­ti­tini che oggi riva­leg­giano, sep­pur media­ti­ca­mente, con l’ortodossia bipar­ti­tica tra­di­zio­nale è ormai realtà. Nel 2010 lo Scot­tish Natio­nal Party (Snp), i verdi e l’Uk Inde­pen­dence Party (Ukip) otte­ne­vano insieme appena il 6% dei voti. Que­sto è valso ai Verdi un unico seg­gio a West­min­ster e sei allo Snp nella devo­luta Sco­zia. Que­sta volta si pre­sen­tano ai son­daggi cia­scuno con il più del 5%.

Ma la noti­zia dav­vero cat­tiva per Ed Mili­band, oggetto di una for­sen­nata cam­pa­gna deni­gra­to­ria alla quale sem­bra rea­gire con una certa deci­sione, è che sulla scia del refe­ren­dum seces­sio­ni­sta, perso per un sof­fio, il par­tito di Nicola Stur­geon sem­bra per la prima volta in grado di spaz­zare via il Labour dalla Sco­zia, tra­di­zio­nal­mente impren­di­bile roc­ca­forte labu­ri­sta. Simili svi­luppi, som­mati alla pro­ba­bile quasi dis­so­lu­zione dei Lib­dem, signi­fi­cano la quasi cer­tezza di un governo di coa­li­zione dove sarà Stur­geon ad avere il dilemma che già fu di Clegg. Cosa senz’altro pre­fe­ri­bile a uno sce­na­rio in cui al posto suo ci fosse Farage, il cui sgan­ghe­rato car­roz­zone di euro­scet­tici, xeno­fobi e ultrà con­ser­va­tori pare for­tu­na­ta­mente ral­len­tare la pro­pria corsa.

Quel che è certo è che il bipo­la­ri­smo bri­tan­nico, finora così solerte nel lastri­care l’autostrada al neo­li­be­ri­smo glo­bale, pare aver fatto il suo tempo. Se da una parte la poten­ziale uscita dall’UE rap­pre­sen­te­rebbe l’evidente raf­for­za­mento della voca­zione atlan­ti­sta del paese, dall’altra la Gran Bre­ta­gna si avvi­cina rilut­tante al resto d’Europa.

(il manifesto, 16/04/15)

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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