Killing Joke: la luce in fondo al tunnel

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A Londra fa un caldo assurdo per essere metà novembre, non sembra la stessa città. Questo senso di spaesamento spaziotemporale affligge particolarmente chi può ricordare il clima pre-global warming: grossomodo ancora venticinque anni fa, i coglionazzi del “tutto va bene” cominciavano a esercitare il proprio cinismo sulla scomparsa della mezza stagione.

E giù a ridere, mentre la cultura pop, sostituendosi inesorabilmente alla politica, continuava ad assolvere il proprio compito: distrarre il mondo sviluppato dalla coscienza infelice della propria alienazione facendogli credere fosse sufficiente seppellirla sotto a una colata di indifferenza.

Peccato che oggi il trucchetto della distrazione di massa, che ha funzionato egregiamente sin dalla Seconda guerra mondiale, non tenga più. Come non basta nemmeno più il cinismo di chi sa che le cose fanno schifo. “Ma tanto che vuoi fare, cambiarle?”

Di fronte alla catastrofe biopolitica ed ecologica nella quale ci troviamo, l’arte e la musica in particolare si trovano di fronte a un cronico deficit di dicibilità. Il nostro mondo rappresentato “casca a pezzi come un vecchio presepio”, per usare una potente immagine di Lucio Dalla. Crolla nel fango delle case inondate, nelle voragini infernali che da un momento all’altro inghiottono uomini e automobili, nel livello di un mare sempre meno salato che sale inesorabile, nelle cime alpine verdi e marroni in pieno inverno, negli animali estinti a forza nell’artico fondente, nelle immense isole di foreste che bruciano e nelle distese desertiche che fioriscono, nelle famiglie disperate che annegano o coprono migliaia di miglia a piedi – a volte per essere ricacciati indietro -, nell’hitlerismo religioso di massacratori usciti dritti dritti dai videogames dell’Occidente ludico, che intanto si preoccupa dei metadata e di “condividere” sui social network quante volte la settimana va al bagno.

La diagnosi è abbastanza chiara: il sistema liberal-democratico, con la sua enfasi sul tornaconto personale, sulla tesaurizzazione dell’individuo e dell’individuale, sulla difesa eroica dell’interesse privato, finanziario e psicologico che sia, ci ha regalato a tutti un biglietto Virgin Galactic di sola andata. Verso dove non si sa, ma sospetto sia una galassia di merda. Spinto avanti dalla sua bulimia di consumo e proprietà, dove non è riuscito ad assoggettare ha creato mostri: tutto naturalmente nel nome della libertà e del progressofitto.

Questo nuovo medioevo post-postmoderno dove integralismo monoteista e ultracapitalismo si prendono a morsi in mezzo alle spoglie inondate ed essiccate della biosfera, non riesce più essere narrato attraverso la pacata discussione tanto cara ai liberal. Ne hanno viste troppe, loro, sono troppo intelligenti per dimostrarsi preoccupati. “Alla fine ce la caveremo”, pensano, “noi che abbiamo i mezzi”.

Peccato non sia più il caro vecchio solito “tempo di crisi,” a cui noi italiani siamo abituati ormai da secoli: siamo di fronte alle ultime chance per un cambio di direzione. Sfuggite le quali, il quadro diventa inoppugnabilmente certo: se mai c’è luce in fondo al tunnel, ebbene sono i fari del treno in corsa verso di noi.

Trasposto sul piano musicale, questo significa che tre quarti della musica pop che viene prodotta e consumata è, nel migliore dei casi fuorviante; nel peggiore, inutile. I musicisti pop sono diventati un po’ come quei meteorologi televisivi che gigioneggiano leggendo previsioni del tempo che in privato li preoccupano, per non preoccupare a loro volta il pubblico. (Ma non sanno che, nascondendo la gravità della situazione ai padri, condannano i figli?)

Fuorviante, quando non esprime il dramma e il pericolo collettivo dal quale dobbiamo salvare noi e chi verrà dopo di noi; e inutile, quando ancora si ostina a concentrarsi sul personale a tempo scaduto. La canzone di Adele l’abbiamo già sentita mille volte, metaforicamente e non. “Hello Adele, it’s me. Dispiace assai se hai il cuore spezzato, fra un po’ si cicatrizzerà, dai.” E sono inutilissimi i Coldplay, gruppo insipido nel loro buonismo melodico, perfetta colonna sonora dell’inanità dell’ultimo quindicennio. Se il post-punk da cui lontanissimamente discendono era la mosca nella minestra, loro sono la minestra. Sciapa.

L’arte si è nutrita per secoli delle amenità del privato, soprattutto in tempo di pace: ma ora siamo in guerra. Una portable war, che sta comoda nella tasca, ma che mette in moto moltitudini. Le gioie e le tragedie personali, per quanto importanti per i diretti interessati, non sono più materia rilevante davanti alle voragini che si spalancano ormai di continuo e fuor di metafora, sotto i nostri piedi.

Cosa resta alla musica? Solo le urla e il pianto sono rimasti capaci di portare significato alle parole della musica. Il discorso è morto, ci vuole la predica fulminante di un Savonarola per scuotere le coscienze. Mai come oggi solo la musica estrema è capace di dire l’oggi in tutta la sua enormità.

I Killing Joke sono sempre stati estremi. Davvero, non come quel peracottaro di Marilyn Manson. Lo è la voce da gregoriano satanico di Jaz Coleman, un pazzo visionario che con il saio ce lo vedo. Lo sono i riff giganteschi senza distorsore della Gibson d’oro di Geordie Walker, il Rickenbacker pulsante di Youth; e lo è la batteria tribale di Paul Ferguson, senza la quale il sabba dei Joke non potrebbe tenersi.

I Killing Joke annunciano l’Apocalisse da trent’anni, ma mai come oggi i loro testi hanno perduto qualunque profetismo per diventare, nella loro esasperazione, una fotografia abbastanza nitida del nostro presente. Il loro ultimo album, Pylon, nella sua magnifica ambizione di dire qualcosa di rilevante fiocinandoti cuore e orecchie, lo conferma: il pericolo estremo dell’oggi produce arte urgente e imperativa. I drammi collettivi sono più urgenti di quelli individuali. Ed è questo che permette a una band di ultracinquantenni di sfoderare un album che i loro nipoti darebbero qualsiasi cosa per scrivere. Sono pur sempre quelli a cui i Nirvana rubarono un riff, tanto per attestare le loro credenziali a chi è cresciuto coi Nirvana.

Lo dimostra il pezzo qui sotto, “Pole Shift” tratto dal precedente MMXII, una cavalcata di nove minuti che emoziona nella sua folle lucidità, magnifica ode alla salvezza sovvertitrice di cui il genere antiumano ha disperato bisogno. Dentro c’è tutto: profezie Maya, geofisica, vangeli apocrifi, occultismo, esegesi biblica, Hegel, tribalismo, ecologia, anarchia, rivoluzione.

Enjoy, c’è luce in fondo al tunnel.

It doesn’t really matter is the south turns north
Or the stars above stop their course
If then thousand coastal cities are taken by the wave, or not
The outcomes are still the same (for all of us now!)
Riddles in stone – great cycles of time
Forgotten, ignore – the ancient paradigm
A polarization of values happening
Opposing camps define themselves and pull apart

Night turns to day, darkness to light
A doorway opens to quantum sight
A world age shift, a converging sun
A field of energy reversal has begun
Suddenly it hit! – Pole shift

Now the pendulum has swung the other way
Pulling us out of our ingrained habits
The death of the old world
Slashing open the womb that held us all
So comfortably for so long

Calling on all of us to restore the biosphere
Towards a partnership of co-creation
In a relationship of resonance
Hand in hand we march into the unknown

Where the taboos of today are tomorrow’s delights
Our values – inverted (so wrong it’s right)
Sex morality imposition – all swept away
In one great orgasm – by the light of day
Suddenly it hit! – Pole shift
Communion with the stars – decode our DNA
Marvel at the mysteries of quantum immortality
Children of Elias – come!
Into a fifth world and a sixth sun
Yes, into a fifth world and a sixth sun
Suddenly it hit! – Pole shift

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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