(Mi scuso se mi ripeto, ho già scritto in passato della mia prima intervista a Jaz Coleman, qui ne ho già pubblicata una, ne scrivo in continuazione, ma dopo aver visto questa, rilasciata al giornalista Mike James e ascoltando a ruota l’ultimo, spettacolare album Pylon, non ho resistito a tornarci sopra.)
Quella con Jaz può essere un’intervista temibile. Lo fu certo per me la prima delle tre volte che lo incontrai, circa dieci anni fa all’Astoria, un posto storico ora distrutto per fare posto alla mega linea della metro Crossrail, ancora in costruzione, foderato di una creta a base di defunte cellule epiteliali frammiste a birra, fumo e tabacco, com’erano le venue rock londinesi prima che arrivasse la pulizia socioimmobiliare che sta avvolgendo la città in un lussuoso sudario.
Ero emozionato, la sua fama terribile mi accompagnava fin dentro il camerino dove la band stava preparandosi per il concerto quella sera. Avevano appena pubblicato il loro omonimo album del 2003, quello che si scagliava con furia biblica contro l’invasione angloamericana dell’Iraq, le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Un disco folgorante, prodotto da Andy Gill e con alla batteria tale Dave Grohl (un fenomeno che dovrebbe solo suonare la batteria con altri invece di capitanare stanchi pachidermi rock da stadio che in Italia innescano provinciali omaggi rock da stadio).
Fu per me l’intervista musicale più bella che abbia mai fatto. Jaz è un punk old school, come si vedrà anche in quest’intervista. Era dieci anni fa e dunque più luciferino: la risata da joker ti gelava. Fumava un enorme Cohiba. Appena cominciammo a parlare riempì a entrambi una mezza pinta di Chivas Regal, che gli serviva per scaldarsi prima del gig. Anni dopo mi disse che aveva smesso, ma a giudicare dalla bicchierata di bianco in questo clip il rapporto con l’alcool resta complesso.
Finita la chiacchierata, dopo quasi un’ora in cui aveva parlato di tutto, dai templari all’imperialismo, da Mahler alla scena di Notting Hill di fine anni Settanta, mi portò sul palco perché doveva fare il suo sound check. Il trovarmi da solo con il cantante di una delle formazioni più carismatiche del post-punk sul palco dell’Astoria, unito all’effetto regale del Chivas che mi scorreva nelle vene mi diede una schicchera di adrenalina che ancora ricordo.
I vecchi punk sono così: con loro non c’è quel muro di vetro che separa. Anche i Clash lo erano: dopo i loro concerti si portavano pubblico e giornalisti a fare casino in albergo tutta la notte. Un senso di comunità quasi del tutto evaporato in un’epoca sovralimentata di cazzate social-digitali.
Ho voluto postarla perché dà un’idea perfetta delle mille sfaccettature di quest’uomo di intelligenza fuori dal comune, che ha una carriera alle spalle di direttore d’orchestra, è un occultista, cospirazionista, ecologista, anticapitalista e cantante fantastico, e fa parte di una band imitata dai Nirvana, covered dai Metallica, nella quale Grohl voleva suonare a tutti i costi per riverenza e ammirazione. Uno che parla per mezz’ora davanti all’intervistatore piacevolmente impietrito della catastrofe nella quale abbiamo cacciato questo agonizzante pianeta anziché del disco che dovrebbe promuovere.
Disco che peraltro è eccezionale per chi ama il genere e potrebbe risultare accattivante anche per chi lo detesta. I Kj sono un raro esempio di band che urla contro lo schifo circostante, che da quarant’anni produce album incandescenti che oppongono all’avidità e alla devastazione del cosiddetto primo mondo un senso di comunità e di solidarietà che era tipico della controcultura di questa città prima che gli anni Ottanta spazzassero via entrambi.
Di questa sua intervista sottoscrivo tutto, a parte le paranoie cospirazioniste, che nel suo caso non sono frutto di pigrizia o incapacità di affrontare la complessità ma un semplice tratto costitutivo del personaggio: per intenderci, Coleman è uno che negli anni Ottanta andò a vivere in Islanda perché era convinto dell’imminente fine del mondo. Ma la cosa per me più importante è che tutta la vita e l’opera dei Kj sono nel segno di una critica reale al mondo. Una critica che non retrocede davanti alla presunta superiorità del nemico, perché non è una posa e tantomeno una fase.
I’ll never let you get to me/survival is my victory.