Che si sia deciso di battezzare Antropocene l’era geologica che stiamo attraversando è un fatto che non lascia troppo spazio a celebrazioni; è la stessa in cui le impronte dell’uomo sulla biosfera hanno raggiunto un punto che è ormai puramente ragionevole ritenere di non ritorno. J. Henry Fair è un fotografo di queste impronte, le più terribili lasciate da una specie nel suo percorso su questa terra. Footprint di luciferina bellezza, talmente profonde da diventare cicatrici. L’ironia sinistra è che, a seguirle, conducano verso una fine e non un inizio: una dopo l’altra, accompagnano il sonnambulo lungo il ciglio dell’abisso.
Le sue fotografie sembrano celebrare la mendace bellezza del depauperamento ambientale a fini di consumo. Colossali miniere a cielo aperto, gigantesche raffinerie, immensi cumuli di detriti estrattivi, il ricorso sempre più indiscriminato a pesticidi, dighe e arginamenti che infaticabili deturpano il suolo e l’atmosfera diventano, nell’obiettivo del fotografo americano, fragorose danze di linee, forme e colori: piccoli miracoli d’arte figurativa, che nella loro occasionale somiglianza a microrganismi biologici sembrano voler confermare l’unità olistica del pianeta con la vita che vi brulica. Ma che dietro la vibrante energia cromatica e la miracolosa potenza evocativa nascondono la sentenza capitale comminata alla biosfera da qualcosa che è sempre più difficile denominare progresso. In una scorribanda visiva attraverso paesaggio, luce, spazio, colore, il libro di Fair ci impietrisce come certi piccoli animali davanti a un predatore: incapaci di muoversi, perché ammaliati l’istante prima di diventarne vittime.
“Ho sempre voluto scattare delle fotografie che raccontassero la storia dell’ambiente”, ci dice nel suo morbido e pigro accento del North Carolina. Il progetto, ora diventato lo splendido e terribile Industrial Scars, per i tipi dall’editore d’architettura londinese Papadakis, va ben al di là di una raffinata allegoria visuale sulla bulimia energetica della società dei consumi: è un solenne memento mori sussurrato a un’umanità sorda all’ormai fin troppo evidente insostenibilità dello sfruttamento ambientale a fini economici. Un progetto che nel corso degli ultimi vent’anni ha preso le mosse dai caposaldi della fotografia industriale della seconda metà del Novecento, ancora prigionieri di un intento documentale, con l’intento di trascenderne i limiti autoimposti, è ora un libro che dovrebbe diventare testo scolastico in tutto il mondo, sviluppato o in via di sviluppo che dir si voglia. “Volevo puntare a delle foto che, come l’arte figurativa, sapessero commuovere. Il documento nudo e crudo non ci riesce. Un lavoro diventa arte quando è capace di toccare le emozioni, che sia musica, o pittura, o qualunque altro linguaggio.” Ma la sfida di denunciare i rischi della sopravvivenza dell’unico pianeta finora disposto ad accoglierci imponeva altro dall’ascetica – e velleitaria – volontà di ritrarre l’oggetto “così com’è”: “Mi ci è voluto del tempo per comprendere che solo l’arte sarebbe stata capace di commuovere su questo argomento”.
Secoli di industrialismo tecnologico ci stanno presentando il conto. Deterioramento dell’ambiente e riscaldamento climatico provocano, a seconda della parte del mondo in cui ci si trova, tanti sottili dispiaceri quotidiani come catastrofi materiali di immense proporzioni. Di solito si reagisce con la determinazione a ignorare, oppure con il ricorso a un’ideologia ottusa, che si ostina a negare effetti sotto gli occhi di tutti: la stessa che ha sospinto un negatore del cambiamento climatico come Trump alla Casa Bianca. Ma quando qualcosa d’immenso e meraviglioso finisce, l’insegnamento della sua bellezza morente va catturato, nonostante il dolore. La fiamma lenta che divora, la materia che si ritrae, espande o cambia di stato, le infinite sfumature cromatiche delle reazioni chimiche: nella lente di Fair, tutti i danni collaterali della produzione industriale diventano ora ammalianti guazzabugli digitali, ora ambiziose e imperscrutabili geometrie, ora alluvioni di colore: un potente decadentismo industriale che vuole ammonire ammaliando. E che per nulla si sottrae all’ambiguità di fondo della fotografia: arte che, in teoria, dovrebbe ridurre la distanza dal reale quando in pratica, spesso, la moltiplica. Alcune di queste foto fanno pensare a ingrandimenti microscopici di tessuti aggrediti da qualche terribile virus, e c’è una voluta indeterminatezza nel contrasto fra la loro attrattiva e il terribile significato, nascosto o immediato che sia. “Vediamo queste forme ovunque al microscopio, le osserviamo nel corpo, ma sono anche nel movimento idrogeologico. Le ho osservate nelle alterazioni costiere e nelle paludi, sono forme universali, altra ragione per cui ci piacciono. Quasi tutte scaturiscono da una dicotomia tra bellezza e orrore. Apparentemente belle, in realtà sono orribili perché, pur non conoscendone la spiegazione, le guardiamo con un brivido. Sappiamo subito che c’è qualcosa che non va.”
Queste orme/cicatrici appaiono in tutta la loro imponenza soltanto da centinaia di metri d’altezza. Per questo Fair ricorre alle ali di un aereo per scattarle. “L’idea mi è venuta quasi per caso. Mentre a bordo di un volo di linea sorvolavo quelli che qui si chiamano i flyover states – e che dovremmo ringraziare per aver appena eletto la nostra versione di Berlusconi – vidi dal finestrino l’immagine incredibile di una centrale elettrica in riva a un fiume, avvolta nella nebbia. Fu questo per me l’inizio di tutto, la decisione di prendere un aereo e scattare foto aeree di questi siti.” Ben presto arrivò la realizzazione che astrarre un particolare soggetto dal contesto portava risultati straordinari: “Se mi avvicinavo a qualcosa fotografandone i dettagli, questo diventava più interessante dell’immagine completa.”
Nel transito da moderno a postmoderno, mentre la trasmissione di informazioni e conoscenza dai vecchi media passava definitivamente alle immagini digitali, la fotografia ha abbandonato definitivamente la sua pretesa storica di oggettività e verità. Una critica mossa inizialmente da Susan Sontag (e ripresa proprio adesso da Un’autentica bugia di Michele Smargiassi), di cui Fair è pienamente consapevole. “Ho provato a fare foto ambientali come chiunque altro, le colline deforestate, le vecchie fabbriche nello stile di Albert Renger-Patzsch, (caposcuola fotografico del Bauhaus, NdR), ma la scelta di fare belle immagini di cose tremende si è evoluta lavorando. Scattavo prima per caso, poi di proposito e poi mi fermavo a osservare, magari per scoprire che era davvero una bella fotografia. Allora provavo a rifarla.”
Ma come si mettono l’espressione artistica e l’orgoglio di produrre il bello al servizio della necessità sociale che quelle stesse immagini dovrebbero esprimere? Certe foto storiche utili alla costruzione della memoria nazionale sono spesso false, come quella dei soldati americani a Iwo Jima, o quella dei sovietici sul tetto del Reichstag berlinese, entrambe messe in scena. “Le foto funzionano solo quando sono belle. Se non lo fossero, non continueremmo a contemplarle. La fotografia è un’arte interessante perché la gente ci crede, e continua a crederci anche nell’epoca dell’assoluta modificabilità via Photoshop. Peraltro, manipolabili le foto lo sono state sempre. E anche oggi, pur sapendo perfettamente che mentono, continuiamo a crederci più che mai. Io mi chiedo sempre se le mie foto sono vere. Credo lo siano, perché non le cambio. La mia regola è che posso fargli solo quello che avrei fatto in una tradizionale camera oscura: lavorare sul contrasto, schiarire, scurire. A parte questo, dicono quello che c’era lì in quel momento, perché ciò che sto facendo è ancora documentare qualcosa. La bellezza e l’ironia sono sempre state ingredienti artistici, trarre il bello da qualcosa di orrendo è la ragione per cui ci toccano.” Fotografie, dunque, che non abdicano al proprio contenuto di verità; anzi, che usano un approccio rigorosamente scientifico per illustrarne i contenuti. “Di questo lavoro mi piace la commistione di arte e scienza. Dietro ogni foto c’è molta ricerca, ognuna ha un suo archivio. Se lavoro su un impianto industriale, raccolgo un fascicolo con tutte le tabelle tecniche che lo riguardano: emissioni di CO2, quanto mercurio produce e altri dati, tutte informazioni correlate alle immagini e accessibili al visitatore delle mie mostre.”
Rispetto alla bellezza analitica del lavoro dei padri della fotografia industriale – assieme al citato Renger-Patsch, i coniugi tedeschi Becher, Bern e Hilla, con i loro bianchi e neri che estetizzano l’immagine col rischio in qualche modo di allontanarla dall’impatto sociale e ambientale – i colori iperrealistici di Fair sono tanto più vivi quanto significano qualcosa di morto o moribondo. E spesso sono il frutto di un attimo. “Queste foto richiedono prontezza e concentrazione. Mi trovo su un aeroplano e tutto procede a grande velocità. Se sto volando sopra un complesso industriale devo prima guardarlo dall’alto e capire se posso fotografarlo. Poi devo a chiedere al pilota di sorvolarlo, ma per scattare ho a disposizione un unico secondo. Se l’aereo sobbalza, dobbiamo tornarci più volte. Dunque composizione e colore devono accadere molto rapidamente, quasi in un processo inconscio. Ad esempio, la foto di copertina del libro: l’ho “vista” mentre ci avvicinavamo. C’era molto vento, avremo tentato di sorvolarla almeno venti volte: l’idea mi è venuta proprio in quel momento, con ogni tentativo che costava una cinquantina di dollari in più…”
Viene spontaneo chiedergli che impatto abbia sulla sua coscienza e umore quel mimetismo della condanna nella bellezza che è cifra dominante di questo lavoro. “È altalenante: se sono nel mio giorno ottimista, dico che sì, ce la possiamo fare, c’è speranza; in uno pessimista, cerco di tacere perché so che siamo fottuti.”
(L’Espresso, 24/12/2016)