Volgare sarai tu

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Il “trash”, come attesta la passione globale per le malfunzioni non solo sartoriali della famiglia Kardashian e in barba allo sgomento dell’élite, si è ormai imposto come una delle categorie di riferimento del vedere contemporaneo.

È come uno spin-off della volgarità e delle sue più o meno inconfessabili sfumature ideologiche, che dell’originale conserva la caratteristica dominante: l’elusività. Come la volgarità, il trash è infatti in costante divenire. Entrambi sono frutto dell’imitazione, o del rifiuto, dei molti verso i pochi e viceversa: scandiscono le fasi della mobilità sociale come dell’immobilità, sono un barometro dei conflitti di classe correnti.

Ma cos’è, o non è, esattamente, “volgare”? Porsi una simile domanda significa già averne dimenticato la risposta, un po’ come il concetto di tempo per S. Agostino. Di una cosa si è subito sicuri: volgari ce sont les autres. Lo conferma una raffinata mostra al Barbican di Londra, fino al prossimo 5 febbraio.

The Vulgar, Fashion Redefined, curata da Judith Clark e Adam Phillips, indaga la volgarità in mezzo millennio di storia della moda. Circa 120 abiti da quaranta diversi creatori – tra cui Chloe, Pam Hogg, Lacroix, Lanvin, Moschino, Prada, Schiaparelli, Gaultier, Vuitton – per undici sale, ciascuna intitolata a una diversa accezione del termine, con lo scopo di confondere l’idea di volgarità nel visitatore per poi invitarlo a ripensarne la definizione. Un fil rouge lungo le varie caratteristiche dell’essere volgari: l’eccesso, l’imitazione riuscita e quella fallita, il citazionismo esasperato, dissacrante, sornione. Dove un abito mantua settecentesco con crinolina larga due metri e mezzo appare accanto alla traboccante haute couture di John Galliano per Dior che ne prende le mosse; e dove il miniabito Mondrian di YSL (1965), si appropriava del maestro modernista per poi diventare un classico in sé. Ci sono la volgarità allusiva, l’ammiccamento sessuale provocante o grossolano, come nella gonna-elefante di Walter van Beirendonck. E c’è il beffarsi dell’orrore snob per la commercialità della moda, come nel caso della sfilata di Lagerfeld per Chanel in uno shopping centre evocato al Grand Palais di Parigi. Non poteva mancare Vivienne Westwood: la sua celebre t-shirt punk “a seno nudo”, disegnata con Malcolm McLaren, grida una trasgressività che oggi strappa un sorriso.

Già all’inizio del XX secolo, Georg Simmel notava come, non appena le classi inferiori si appropriano della moda di quelle superiori, queste l’abbandonano per un’altra, cosicché la fatica di Sisifo possa ricominciare. Ma The Vulgar insiste anche nel rilevare quanto, nel ventunesimo secolo, la volgarità nella moda sia ormai pienamente leggibile anche al contrario, cioè come inclusione, apertura, accesso. Diceva Mary Quant, la madre della minigonna: “La gente chiama volgari le cose che ancora non conosce”. Purché siano vistose, verrebbe da aggiungere. In fondo anche Thorstein Veblen, nella Teoria della classe agiata, annoverava la moda nella categoria del cosiddetto sciupio vistoso.

(L’Espresso, 11/12/16)

 

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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