Divorzio d’interesse

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Nonostante la privatizzazione, Royal Mail, la posta britannica, ancora gode di buona reputazione. E alle 13,20 di ieri ora italiana, Theresa May ha puntualmente recapitato a Donald Tusk la storica lettera «di dimissioni» della Gran Bretagna dall’Unione Europea.


Veramente l’ha fatto brevi manu, attraverso l’ambasciatore Tim Barrow. Che assieme a Tusk ha fronteggiato gli obiettivi con smagliante sorriso patibolare. Come annunciato, a nove mesi dal referendum che ha sentenziato la Brexit, lo scorso 23 giugno, e a sette giorni dall’attacco terroristico a Westminster in cui hanno perso la vita quattro persone, sono finiti quarantaquattro anni di permanenza del paese nell’Ue.

Poco dopo, riferendo nella Camera dei Comuni, la premier ha ribadito di aver messo in pratica la volontà del popolo britannico. «Questo è un momento storico, dal quale non si torna indietro. Prenderemo le nostre decisioni e faremo le nostre leggi».

L’aveva detto più volte, l’ha ripetuto ieri: la Gran Bretagna lascia l’Ue, non l’Europa. Dopo aver riaffermato la volontà di pervenire a un accordo «che funzioni per tutti», May ha ammesso che il paese perderà la facoltà di influire sulle scelte economiche dell’Europa, dicendosi disposta a intraprendere le discussioni «costruttivamente, con rispetto e spirito di sincera cooperazione». Appena dietro, il ministro delle finanze Philip Hammond – che come lei, prima del referendum, era favorevole a restare nell’Ue – annuiva compunto.

Rivolgendosi poco tempo fa a questa stessa assemblea, May aveva spacconeggiato che «nessun accordo sarà comunque meglio di un cattivo accordo». Pur non escludendo questo scenario, il tono di oggi significa che è pervenuta a consigli assai più miti. La lettera parla di una nuova, profonda «special relationship» da intraprendere con l’Europa (oltre a quella, storica, con gli Usa); fuori del mercato unico – è impossibile rimanervi perché Bruxelles non concede nulla sulla libertà di movimento delle persone – ma con un accordo di libero scambio «solido e ambizioso». Insiste sulla collaborazione nella lotta al terrorismo, nel volere un accordo su un periodo di transizione per evitare che le imprese nazionali si trovino sull’«orlo di un abisso» e sulle tutele reciproche dei diritti di cittadini britannici residenti in Europa e di quelli europei residenti in Gran Bretagna, la cui mancanza in questi ultimi mesi ha scatenato un’ondata di panico allegramente fomentata dai giornali nazionali schierati per il remain e quelli stranieri. La lettera insiste anche sul voler negoziare l’accordo commerciale in contemporanea con quello sull’uscita tout court, cosa da cui Bruxelles dissente nettamente e sulla quale sarà difficile conciliare.

Apertura condizionale da parte di Jeremy Corbyn, disposto a sostenere il governo qualora questo accolga le richieste del Labour di garantire l’accesso al mercato unico (improbabile) e la protezione dei diritti dei lavoratori. Del tutto critico, invece, il leader Libdem Farron, che deve la sopravvivenza del suo partito proprio alla frustrazione del 48% dei remainers sconfitti.

Ora sono partiti i cronometri: il negoziato fiume di cui consta il processo formale di uscita ha in teoria due anni per compiersi, anche se nessuno è disposto a scommetterci. Sicuramente nemmeno May, che ha ammesso eufemisticamente: «Riconosciamo che sarà una sfida compiere il negoziato nei due anni stabiliti dal trattato».

Questo negoziato, ancora tutto da negoziare, si presenta come una matrioska della divisione: nell’Ue, nel Regno Unito, nelle singole nazioni che lo compongono, nei partiti di queste stesse nazioni. È diventato ormai fin troppo facile ironizzare sul nome Regno Unito quando Scozia, Galles e Irlanda del Nord sono sempre più indispettite per la decisione di Westminster di negoziare unilateralmente per loro conto con Bruxelles senza nemmeno consultarli. Anche per questo, sempre nella lettera a Tusk, May cerca di placare le ire della premier scozzese Nicola Sturgeon, che martedì si è vista passare per dieci voti – grazie all’appoggio dei verdi – al parlamento di Edinburgo la riattivazione dell’iter verso un secondo referendum indipendentista. Quando, proprio oggi, il parlamento britannico applicherà il Great Repeal Bill (nome dalla magniloquenza cromwelliana), decreto che incorpora le leggi dell’Ue in quelle nazionali per evitare che il paese si ritrovi in un buco nero legislativo, il governo «si attende un significativo aumento del potere decisionale in ciascuna amministrazione devoluta», come a dire: cari scozzesi, gallesi, nordirlandesi, non saremo noi da Londra a decidere per voi ora che non si decide più a Bruxelles.

(il manifesto, 30/03/17)

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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