Se n’è andato il sommo Allan Holdsworth, orso bonario dello Yorkshire, uno dei maggiori chitarristi di sempre.
Una carriera timida la sua, com’era lui sul palco. Quasi imbarazzato da quella esorbitante padronanza del suo strumento che lo ha portato a diventare improvvisatore senza pari. Una discografia diseguale ma ricca di gemme, e poi le innumerevoli collaborazioni con gruppi rock e pop, dai Soft Machine, ai Gong, ai Level 42, che sospettiamo non durassero anche per il divario tecnico che spesso lo separava dai colleghi. Stiamo parlando di uno ammirato da Frank Zappa, Eddie Van Halen come da Joe Satriani e Steve Vai, tanto per citare quattro volenterosi apprendisti dello strumento. Un artista meravigliosamente complesso, la cui grandezza si coglie dopo parecchi ascolti. Ma, come diceva Reinhold Messner, “Quant’è bello guardare sotto, una volta faticosamente arrivati in cima!”*
Il fatto che un musicista di questa caratura abbia avuto il funerale pagato dai suoi estimatori (fans) e facesse fatica a pagarsi l’affitto, non è che un’altra goccia in quell’oceano di ragioni che fanno di quello in cui viviamo un mondo di merda che va inesorabilmente cambiato.
Allego una cosa pubblicata qui in passato e ispiratami da questo maestro qualche anno fa. Tre suoi album fondamentali: Sand (1987), Secrets (1989), e il più tardo capolavoro The Sixteen Men of Tain (2000). Metal Fatigue (1985), registrato anche grazie a un ammirato Van Halen, è il disco che gli è valso l’idolatria di legioni di metallari.
*Messner non ha mai detto niente del genere, naturalmente.