I molti take (o fake) della storia al cinema

Darkest-Hour-Still

Per molti europei, soprattutto italiani, la Gran Bretagna della British Exit è un po’ come l’amante di un incontro occasionale che il mattino dopo si riveste in silenzio per poi dileguarsi, senza nemmeno lasciare uno straccio di numero. Davanti al benservito targato Brexit sono rimasti impietriti, come sotto shock.

Dimenticando, o forse ignorando, che quarant’anni fa il Paese, dall’economia in ginocchio, era entrato implorante nell’allora Cee come “malato d’Europa”. Proprio loro, gli unici a vincere la guerra, avevano dovuto ripagare fino all’ultima sterlina i prestiti agli Stati Uniti anziché esserne ricoperti di dollari in chiave antisovietica, come invece gli ex-fascisti italiani e tedeschi. Insomma, mentre noi uscivamo dalla mezzadria vendendo frigoriferi agli americani e crescevamo (parola magica) più della Cina di oggi, loro perdevano l’impero facendo la fila per i razionamenti (donde la leggendaria disciplina nel fare le file). Solo che alle spalle noi avevamo l’italietta nazionalista e fascista unificata nel 1860, loro il più solido e potente stato-nazione europeo a vocazione imperialistica, per tacere di un’umiliante sconfitta e di un’inebriante vittoria. Questo spiega, almeno in parte, la psicologia del voto Brexit.

Pareva opportuno ricordarlo prima di parlare di almeno due recenti pellicole che con tempismo a dir poco sospetto fungono da commentario – appunto, politico – alla storia contemporanea. Si tratta naturalmente di Dunkrik e L’ora più buia: lungometraggi strapremiati (ben quattordici nomination agli Oscar tra i due) che, partendo da due fatti storici strettamente connessi della Seconda guerra mondiale, risuonano tutt’altro che misteriosamente nell’immaginario di un Regno che in fondo non si è mai sentito europeo e che dopo quarant’anni di problematica convivenza ha finalmente deciso di mollare l’Unione.

Il primo tratta, com’è noto, della drammatica evacuazione delle truppe britanniche dalla Normandia, che consentì al Paese di resistere fin quando il doppio errore dei fascisti totalitari – la catastrofica decisione di Hitler di invadere l’Unione Sovietica e l’attacco giapponese a Pearl Harbor – non ne decretarono l’inizio della fine. Il secondo narra in un’apnea retorica la chiamata di Winston Churchill alla guida del governo dopo l’appeasement con Hitler dei suoi predecessori, culminato con l’umiliazione di Monaco.

Naturalmente i film che si propongono una rielaborazione sfacciatamente ideologica della storia più o meno recente di qualunque Paese – il suo cosiddetto uso pubblico, come lo chiamava Nicola Gallerano – si contano a decine. Come diceva Mussolini, il cinema è l’arma più forte. Restando alla Gran Bretagna, il ritorno di questa tendenza si può trovare nello stucchevole The Queen, che ha giovato all’immagine dei Windsor come nemmeno le manovre di Cambridge Analytica.

In Dunkirk, il londinese Cristopher Nolan, maestro d’involuti e cupi blockbuster hollywoodiani, rivisita uno dei miti fondativi della capacità di “cavarsela da soli” alla base del nazionalismo risorgente espresso dalla Brexit. Il film ricostruisce con intensità e ritmo incalzanti (e con programmatica assenza di spiegazioni) la colossale evacuazione di quasi 400mila soldati britannici da una Francia sbaragliata dall’offensiva hitleriana delle Ardenne. Un vero e proprio “colossale disastro militare”, come ebbe a definirla lo stesso Churchill, una fuga, una sconfitta tramutata in vittoria, come ogni buona propaganda dovrebbe saper fare, e su cui si basa l’eccezionalismo dell’unica nazione europea a non essere stata sconfitta o invasa nella modernità. Oggi Dunkirk e Calais sono ancora assediate: non dai tedeschi ma dai migranti. E dopo averle trasformate in due universi concentrazionari, il Paese torna a isolarsi.

L’ora più buia è di Joe Wright, ma sembra in realtà un film scritto e diretto dall’impagabile titolare degli Esteri Boris Johnson, autore a sua volta di una ponderosa, inutile, ennesima biografia del nostro Winston. Che l’ora sia davvero buia lo conferma la penombra caravaggesca in cui brancolano le sedute a Westminster. L’ex fan di Mussolini Churchill, (interpretato da un pirotecnico Gary Oldman, premio Oscar) raggiunge picchi che forse nemmeno la vasta filmografia di propaganda bellica ha mai raggiunto. In particolare nella scena della metropolitana, dove lo statista incontra la gente comune – perfino un ragazzo afrocaraibico, niente male per un razzista imperialista – che lo spinge a non piegarsi alla prepotenza hitleriana, ispirandogli l’orazione madre di tutta la retorica politica moderna (“Combatteremo sulle spiagge…”) fa sembrare Spielberg i fratelli Dardenne. Se non fosse risibile, farebbe infuriare.

Questo figlio del popolo, nato a Blenheim Palace, una dimora di quasi duecento stanze di fronte alla quale Buckingham Palace impallidisce, ovviamente nella metro non ha mai messo piede. E la decisione di portare avanti la lotta contro la Wehrmacht dilagante in Europa non gli fu certo suggerita da un popolo col quale non entrò mai lontanamente a diretto contatto, come invece questo peana in pellicola insinua in questo imbarazzante occhiolino al “populismo” corrente. Quanto alla sua irriducibile avversione a Hitler, è ben noto come Churchill fosse stato un grande sostenitore del re Edward VIII, fratello maggiore di George VI (il padre di Elizabeth II, anche lui massaggiato da una biopic recente): un nazista che inconsapevolmente salvò la carriera dello stesso Churchill abdicando per sposare la divorziata – e nazista pure lei –  miliardaria americana Wallis Simpson nella storia rosa che fece sdilinquire  i rotocalchi piccolo-borghesi di mezzo mondo.

Con i media nazional-conservatori tutti schierati a favore della Brexit, in certe sale la visione di questo film ha fatto scattare in piedi il pubblico euroscettico, convinto di abbandonare una nave, l’Unione Europea, che sta colando a picco mentre lei, Britannia, si prepara ancora una volta a dominare i mari come nemmeno Drake e Nelson sulle note di Elgar, il compositore ufficiale dell’imperialismo inglese.

Se la storia non s’insegna certo con i film, l’ideologia categoricamente sì. Proprio in quest’epoca di puteolente risorgere nazionalistico i Nolan, i Wright, i Johnson – e perché no, retroattivamente anche i Benigni de La vita è bella – farebbero bene a ricordarsi che la guerra contro i nazifascisti l’hanno vinta soprattutto i russi. Pardon, i sovietici.

(Left, 30 marzo, 5 aprile 2018)

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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