Indie Cindy. Cindy Sherman alla National Portrait Gallery

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È la vera Zelig del contemporaneo. Con i suoi mille sé caleidoscopici, contorti ed evanescenti, ha definitivamente disarticolato il concetto d’identità nella cultura popolare di fine Novecento sfumandolo nell’autorappresentazione, con risultati a dir poco spiazzanti.

Cindy Sherman (Glen Ridge, Usa, 1954) è alla National portrait gallery di Londra fino al 15 settembre, con la prima, vasta retrospettiva, ben 180 lavori, a lei dedicata in Gran Bretagna. Che comprende l’ormai leggendaria serie Untitled film stills: settanta magnetici – e magnifici – autoritratti che l’hanno resa la regina dell’autoscatto ben prima che questo diventasse selfiegrazie alla divulgazione della fotografia digitale su smartphone, in una riscrittura della relazione fra ego e sé che parte dalla ritrattistica cinquecentesca per approdare alle pagine patinate di riviste di e sul lusso come Vogue o Harper’s Bazaar.

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In quest’antologia immaginaria d’idealtipi femminili iniziata nel 1977-1980 a New York, la manipolazione dell’artista gioca con i look di “stelle del cinema” della Hollywood degli anni Cinquanta e Sessanta, dei film noir, dei B movies e con quelli del cinema d’autore europeo. Quando il Museum of modern art di New York, nel 1997, allestì in mostra questi lavori due anni dopo aver acquisito l’intera serie, Cindy Sherman cominciò a essere onnipresente nelle collezioni private e nei musei di tutto il mondo, diventando un peso massimo dell’arte contemporanea. Accanto a queste celebri mise-en-scène sono esposti anche lavori successivi dell’artista, come tutte e cinque le serie Cover girls, la prima delle quali realizzata nel 1976, quando Sherman era ancora studentessa presso la State university of New York di Buffalo, oltre a lavori più recenti come i sinistri Clowns, ispirati dalla tragedia delle Twin Towers, e ai celebri Society portraits, dove l’artista – Sherman ha più volte sottolineato quanta scarsa predeterminazione vi sia nel suo lavorare: «In realtà non faccio che usare lo specchio per evocare qualcuno che ancora non conosco finché non lo vedo», ha detto – sembra prendere di mira “problemi” della società postindustriale quali la morbosa preservazione della gioventù o l’ansia da status. Non manca nell’allestimento della Npg, curato da Paul Moorhouse con la collaborazione dell’artista, materiale proveniente dallo studio di Sherman, così da consentire al visitatore uno sguardo nel suo processo creativo: la bottega, insomma. E poi una rarità che fa di questa mostra un assoluto unicum: il prestito del celebre Ritratto di Madame Moitessier di Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780-1867) che dialoga con la reinterpretazione messa in atto da Sherman.

Non è un caso che Untitled film stills sia, appunto, senza titolo. La forza di questa serie, in cui l’artista si cala nei panni di una moltitudine di figure femminili che sembrano uscite da film di cui non ricordiamo il titolo perché non li abbiamo mai visti, è nella sua immaginaria verosimiglianza. La mancanza del titolo è proprio il cardine di tutta la ricerca di Sherman, del suo nervoso vagabondaggio fotografico nella crepa sempre più ampia insinuatasi fra realtà e rappresentazione dagli anni Ottanta a oggi. Come non è un caso che sia una battuta dalla Finestra sul cortile, il classico di Alfred Hitchcock del 1954 – “Dimmi tutto quello che vedi e quello che pensi significhi” – ad aver particolarmente ispirato l’artista americana. E ciò che Sherman vuole vedere sono casalinghe, ragazze della porta accanto, virago, vamp, donne in pericolo, mogli di politici repubblicani, attrici disoccupate, pin-up: tutte rigorosamente inesistenti ma (ri)prodotte con tanta millimetrica esattezza da farle apparire reali. Come anche per la soddisfazione di quello sguardo maschile (male gaze) che mercifica il corpo femminile riducendolo a una serie di morbosi stereotipi, come nella serie Centerfolds, in cui le varie eroine sono ridotte a icone voyeuristiche.

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Sembrerà fin troppo banale, ma quella di Cindy Sherman, esponente di punta della cosiddetta Pictures generation assieme a Barbara Kruger, Robert Longo, John Baldessari e altri, è una ricerca sul selfie prima del selfie, un pellegrinaggio nella foresta di segni in bilico fra verosimiglianza e fantasia, storia e costume, in un caleidoscopio identitario straordinariamente frastagliato. Con il suo infinito catalogo dell’immagine della donna nei mass media novecenteschi (cinema, televisione, pubblicità e moda), questa mostra mette in discussione costrutti come genere e identità, in perpetuo flusso grazie all’impressionante gamma di possibilità di modifica e trasformazione offerte dall’odierna tecnologia digitale.

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Commentando con suprema capacità affabulatoria la riproducibilità/modificabilità tecniche dell’immagine, l’opera di Cindy Sherman è un’inquietante guida nel dedalo di segni – e di sogni – senza significato nel quale la cultura occidentale sembra si stia smarrendo: una masterclass di postmodernismo che denuncia l’eterna ambiguità della verità dell’immagine. Attraverso il capovolgimento programmatico della funzione documentativa della fotografia come medium, l’arte di Cindy Sherman diventa un commento sul nostro naufragio in questo mare iconologico nel quale navighiamo ormai dal Secondo dopoguerra. O, più semplicemente, uno specchio nel quale (non) riconoscersi.

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(Arte, Luglio 2019)

 

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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