
Ieri Marco Minniti ha fatto la rituale apparizione alla blasonata, fabiana (ma anche gheddafiana) London School of Economics (Lse): rituale perché meta frequente di personalità politiche italiane e di centrosinistra.

Ieri Marco Minniti ha fatto la rituale apparizione alla blasonata, fabiana (ma anche gheddafiana) London School of Economics (Lse): rituale perché meta frequente di personalità politiche italiane e di centrosinistra.
L’accordo di uscita dall’Ue di Theresa May è stato di nuovo sconfitto, per 242 a 391, 149 voti contro. Sconfitta non schiacciante come la precedente, nondimeno più che netta. Vuol dire che oggi si vota se lasciare l’Ue senza un accordo o meno. E che giovedì si voterà su una proroga di tre mesi dell’uscita fissata il 29 marzo. Di più non è dato sapere.
Nei quasi tre anni che ci separano dal 23 marzo 2016, la squassante virulenza con cui la British exit si è abbattuta sulla Gran Bretagna – scavando un fossato nelle famiglie, nelle coppie e nella società in generale, rimescolandone pubblico e privato e riscoprendo una dimensione politica del reale in realtà mai venuta meno – ha prodotto un gettito di lavori che cercano di descrivere, analizzare, criticare quello che è evidentemente uno psicodramma identitario collettivo.
L’ennesima settimana di Passione di S. Theresa si apre con un voto in parlamento oggi, seguito con ogni probabilità da un altro voto in parlamento domani, al quale si presume, ragionevolmente, farà seguito un terzo voto giovedì. Sono le prossime tre stazioni della “Via Brexit” di May, mentre il Paese precipita avvitandosi verso il 29 marzo senza che la sua leader abbia fatto nulla di sostanziale per sbloccare la situazione.

L’ora Brexit, fissata il 29 marzo con lo scattare dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, galoppa verso la morta gora di Westminster, agitata fuori tempo massimo dalle prime defezioni.
Nessun agnello può posticipare la propria andata al macello. Ma ieri, in un altro succulento capitolo della telenovela Brexit, Theresa May – che agnello non è – ha fatto proprio questo.
Tre sconfitte per May: posson bastare? Naturalmente no, almeno in quel vituperato guazzabuglio-politico-legale infelicemente battezzato Brexit. E nemmeno quando una di queste non ha precedenti storici, pur provenendo dai libri di storia.
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La porta del gabinetto è sempre aperta. Anzi, a Downing Street si pensa di installare i tornelli per permettere ai dimissionari e ai nuovi incaricati di avvicendarsi in modo più fluido. Fuori Raab e McVey, rispettivamente Brexit e Lavoro e pensioni, dentro l’ignoto Steve Barclay e Amber Rudd (a volte ritornano, aveva dato sacrosante dimissioni per la porcata della «Windrush generation»).

Nel dibattito in aula seguito alla presentazione della famigerata bozza di accordo con l’Ue sulla British Exit, Jeremy Corbyn – ormai padrone indiscusso di quella pratica che Trotskij definiva il parliamentary cant, la (menzognera e ipocrita) retorica parlamentare – ha vigorosamente attaccato il governo May giurando che non voterà mai a favore di quella bozza di accordo, definendola abborracciata, inconcludente e soprattutto contro gli interessi del popolo britannico.

Se ieri mattina Theresa May si è svegliata più leggera, era perché il suo governo aveva appena perduto due ministri chiave e stava per perderne altri sei. La notte, infatti, porta consiglio. E a volte dimissioni.