Oggi Brian Eno compie settant’anni. È il postmodernismo in musica e non intende essere necessariamente un complimento. Ha sfornato dischi – altrui come produttore, propri come autore – incredibili, alcuni dei quali ascolto ininterrottamente da più di trent’anni. Il suo capolavoro è Another Green World, un disco di prodigiosa delicatezza e modernità.
Ha fatto anche tanti danni: certa – non tutta – sua musica “per ambienti” è intellettualmente sospetta, produrre gruppi a metà fra lo stadio e la parrocchia come gli U2 e i Coldplay ha quasi del tutto compensato in negativo l’aver presieduto alla – geniale – metamorfosi berlinese elettronica del Bowie del periodo 77-81, il suo ritorno con David Byrne dopo uno dei dischi più importanti di sempre (My Life in the Bush of Ghosts) è stata una delusione per il qui assente, sono almeno quindici anni che non sforna nulla di dirompente. Eppure è – e resterà – figura chiave per comprendere la musica popolare dagli anni Settanta a oggi.
S’impone una riflessione rapsodica sulla musica. Sto per espiare i cinquanta, la vita si accorcia schifosamente, il tempo diventa sempre più prezioso, come sempre più imperdonabile buttarlo via ascoltando, leggendo, contemplando roba che non merita.
Non voglio assolutamente iniziare una polemica sulla qualità oggettiva di quello che di questi tempi è dato ascoltare, ma non posso fare a meno di dire che un brano come quello che segue, vecchio quasi di quarant’anni, che suona in maniera così assuefacente, inebriante, vorticosa, freneticamente attuale, beh non c’è. E se ci fosse siete pregati di notificarmelo immediatamente.
È tratto da un album che è superiore a tutte le possibili permutazioni della somma delle sue parti, comprese le carriere semisoliste – trascurabili in confronto – di Weymouth/Frantz/Byrne. Un disco che saccheggia l’afrofunk in modo geniale e che lo coniuga con la nevrosi metropolitana che solo New York incarna in modo altrettanto completo e autorevole. E che, oltre a essere il vertice produttivo assoluto di Brian Eno ospita, oltre allo stesso Belew, un Jon Hassel la cui tromba afro-extraterrestre ci soffia il suo gelido scirocco nelle orecchie, facendoci sentire esploratori interplanetari.
Poca roba riesce a scuotere la mia vecchia carcassa con altrettanta urgenza: non solo di muovermi, ma di dire, fare, ragionare. Perché contiene il fermento dell’essere vivi, quella meravigliosa sensazione brulicante, il formicolio della complessità. Come dice il testo, ti fa sentire di essere uno di quelli che il mondo riesce a toccarlo, e inevitabilmente fallisce quando poi tenta di trattenerlo. Icaro.
Di questo capolavoro scelgo la mia traccia preferita, con dentro uno dei più incredibili assoli – assoli, embè? – di chitarra di sempre, courtesy del sommo Adrian Belew, oltre che un testo che può tranquillamente essere letto come un appello a una sacrosanta – nonché disperatamente necessaria – supremazia della donna, forse l’unica creatura che può salvarci da noi stessi.
Un album del genere, se va bene, capita una volta ogni secolo. Ancora non è ricapitato. Ne ebbi sentore, vago e indistinto, quando lo ascoltai la prima volta al ginnasio.
Ora che l’ho appena riascoltato, trentacinque anni dopo, ne sono sicuro.