Come togliere dando (atto unico, di George Osborne)

In una coin­ci­denza più che sim­bo­lica, men­tre il can­cel­liere George Osborne pre­sen­tava mer­co­ledì la prima finan­zia­ria a mono­po­lio Tories dal 1996 (e senza il fasti­dioso inco­modo dei Lib-dem in coa­li­zione) la capi­tale piom­bava nel caos, con milioni di pen­do­lari bloc­cati dal più grande scio­pero dei lavo­ra­tori della metro­po­li­tana degli ultimi quin­dici anni.

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La privatizzazione al potere

È il Day After delle ele­zioni più imper­scru­ta­bili degli ultimi trent’anni, che hanno visto i con­ser­va­tori ripren­dersi una mag­gio­ranza che gli sfug­giva dai tempi di Mar­ga­ret Thatcher. Continue reading “La privatizzazione al potere”

Tories scatenati

Per la notte elet­to­rale di gio­vedì ci vor­rebbe un sismo­grafo. Ter­re­moto è la parola che meglio descrive l’esito di que­ste ele­zioni poli­ti­che, le più incerte da decenni a que­sta parte: in tanti hanno perso non la casa, ma il lavoro. Lea­der poli­tici soprat­tutto: Ed Mili­band, Nick Clegg, Nigel Farage. E anche i son­dag­gi­sti. Continue reading “Tories scatenati”

Sanità elettorale

Men­tre il 7 mag­gio — data delle imper­scru­ta­bili ele­zioni bri­tan­ni­che — si avvi­cina a passo di carica con circa otto milioni di aventi diritto che di certo non voterà per­ché non si è iscritto in tempo al regi­stro elet­to­rale entro la sca­denza di lunedì scorso, la cam­pa­gna pro­se­gue la sua corsa. Continue reading “Sanità elettorale”

“History is just one fucking thing after the other.” Intervista ad Alan Bennett

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Com’è lecito aspettarsi dalla nazione che più e meglio di ogni altra in Europa ha traghettato le disuguaglianze nella modernità, in Gran Bretagna la satira sociale è un genere letterario di capitale importanza. Anche per questo Alan Bennett, attore, diarista, sceneggiatore e drammaturgo inglese tra i massimi viventi, è amato in modo viscerale. Sebbene – o forse proprio perché – spesso trattino il sistema di classe nazionale con serpeggiante sarcasmo, i lavori del laburista Bennett sono popolarissimi presso la maggioranza silenziosa che legge il “Daily Mail”. “Gente” (Adelphi) – la sua ultima commedia ambientata in una delle tante magnifiche e decrepite magioni di campagna nelle quali vivono asserragliati quegli eccentrici angloaristocratici che tanto fanno impazzire la borghesia globale – dileggia con suprema eleganza istituzioni come il National Trust (ente a difesa del patrimonio culturale e paesaggistico) e l’industria dei beni culturali. Al centro della storia, tre anziane aristocrati- che che decidono di affittare la villa di campagna come set per un film porno. “L’Espresso” ha incontrato Bennett nella graziosa casa vittoriana di Camden – a pochi passi da quella di Friedrich Engels – che divide con il partner Rupert Thomas, direttore della rivista “World of Interiors”.

Signor Bennett, con la sua appuntita ironia, “Gente” sembra quasi nascere da un’irritazione. I temi sono classici: il divario nord-sud, la divisione in classi…

«Spesso le idee per una commedia partono da una scena o da un personaggio. In questo caso avevo l’idea di un’anziana aristocratica, un po’ malridotta, avvolta in una vecchia pelliccia e con le “plimsoll” (vetusta marca di scarpe da ginnastica, NdR) in piedi sulla scena. Sono partito da lì, anche se ho un repertorio d’idee sulle ville di campagna inglesi, è un tema che continua a ripresentarsi. Quanto al nord, è lì che è ambientata. Da bambino, subito dopo la fine della guerra, la prima villa che visitai fu Temple Newsam, nelle vicinanze di Leeds. Era stata ceduta dal conte di Halifax alla cittadinanza, mi ci accompagnò mia nonna, avrò avuto otto anni. Tutto il parco della villa era stato scavato per la ricerca del carbone. Era l’inverno del 1947 – eccezionalmente freddo – e il riscaldamento un’emergenza. Il parco era completamente devastato, gli scavi arrivavano fno all’ingresso seicentesco. Già all’e tà di otto anni – un po’ presto a dire il vero – ebbi la sensazione che il meglio fosse passato, per così dire, e che il declino del Paese fosse imminente.

Lei è del nord ex-industriale, come ben testimonia il suo accento. L’accento “sbagliato” in Gran Bretagna è ancora tabù, eppure lei non si è sforzato di cambiarlo.

«E quando cominciai a recitare, la cosa era molto più delicata di quanto non sia oggi. Cominciò quando arrivai a Oxford: tutti cercavano di dissimulare il proprio accento. Anch’io ci provai, anche se senza tanto successo. Furono i Beatles a cambiare le cose: con loro gli accenti del nord non divennero certo di moda, ma più accettabili. Oggi sono stati amalgamati nel “received English” (la pronuncia della Bbc, NdR)».

Eppure oggi i giovani middle class ostentano il cosiddetto “estuary English” o “mockney”, con inflessioni pseudopopolari.

«È vero, ma non credo che rappresenti un cambiamento signifcativo. Si discute molto di come l’istruzione sia cambiata, ed è vero che oggi soltanto ragazzi e ragazze di estrazione sociale elevata possono studiare recitazione. Quando cominciai io, i ruoli principali andavano ad attori di estrazione operaia, come Albert Finney o Tom Courtenay. Oggi vanno a ragazzi delle “public school” (cfr. Benedict Cumberbatch, NdR) che si sono potuti permettere una scuola di recitazione».

In “Gente” si parla di un’Inghilterra «fasulla». Riflette forse la disillusione per il New Labour di un laburista della prima ora come lei?

«A un certo punto un personaggio parla della casa di campagna come di una metafora per l’Inghilterra, e viene immediatamente contraddetto: se mai lo è stata non lo è di certo adesso. Io sono d’accordo. Si parla della fine della villa inglese da un centinaio d’anni almeno, quando in realtà non ha fatto che guadagnare terreno. L’aristocrazia ha il dono della sopravvivenza. Gli aristocratici sono quasi tutti a Londra e per aprire solo nominalmente le loro case due o tre volte l’anno al pubblico vengono pure sovvenzionati dallo stato. Non se la passano affatto male».

È da qui che nasce l’attuale mania per l’aristocrazia, il suo sdoganamento morale e la glamourizzazione che ne fanno i media?

«Non credo che il peso dell’aristocrazia nella società sia mai venuto meno. Per me il problema è che la amo e la odio allo stesso tempo. Nel senso che mi piace la struttura di classe perché è la cosa più interessante di cui scrivere e da descrivere, ma allo stesso tempo il concetto per cui certi individui godano di una superiorità implicita mi è ripugnante. Una cosa che mi sta particolarmente a cuore è l’istruzione privata: m’irrita più di ogni altra cosa. Dipende molto dal mio background: avendo frequentato una “grammar school” ed essendo tutta la mia carriera scolastica stata pagata dallo stato, trovo mostruoso vedere quest’ultimo sotto l’attacco serrato dei conservatori».

Insomma lei è un fiore all’occhiello del welfare state, assediato ormai ovunque.

«Grazie, lo vedo come un grosso complimento. Ma non sopporto di sentirlo chiamare “nanny state” (stato balia, NdR) come fanno a destra, lamentando speciosamente la fine dell’autonomia del cittadino. Da questo “stato balia” io sono stato istruito, la vita professionale di mio padre ne è stata salvata. Come potrei non essere completamente a favore?»

E proprio ora che l’ombra di Margaret Thatcher si staglia sul presente in modo inquietante.

Detestavo la signora Thatcher, la detesto oggi che è morta quanto ieri che era viva, e ne detesto la postuma santifcazione, in pieno svolgimento. Se uno viaggiava a nord, verso Liverpool, verso la fne del suo terzo mandato, vedeva soltanto devastazione, ogni fabbrica era chiusa. Le comunità industriali, povere ma fiere, erano diventate ghetti degradati, un fenomeno le cui cicatrici sono ancora visibili in molte parti del nord. C’era poco da fare, a parte votarle contro, almeno fno al 1997…».

Quando vinse le elezioni il New Labour di Tony Blair, che avvalorò e mantenne molti degli assunti ideologici dei conservatori.

«È vero, ma io ho sempre avuto rispetto per la fgura di Gordon Brown, che ha preso il suo posto nel 2007. Ho sempre pensato che avesse un’etica diversa, una coscienza più retta di Blair. Con Thatcher ogni giorno c’era qualche nuovo motivo per indignarsi. Ma poi le cose peggiorarono ulteriormente, con privatizzazioni che nemmeno lei si sarebbe mai sognata di proporre, come quella recente delle poste».

C’è una battuta formidabile negli “Studenti di storia”: durante un esame, quando a uno dei giovani protagonisti viene chiesto cosa sia la storia, lui risponde: «La storia non è che una fottuta cosa dopo l’altra».

«Pensi che non è mia, ma di Herbert Butterfeld, un rispettabile flosofo della storia di Oxford, che la disse in modo leggermente meno volgare… Non avrei mai pensato che fosse così comica quando la misi nel testo, funzionava perché il personaggio era simpatico. Ci siamo divertiti moltissimo mettendo in scena quella commedia. A interpretare dei brillanti e promettenti futuri universitari erano attori che avevano lasciato la scuola a sedici anni».

Chissà come avrebbe reagito Hegel a una battuta del genere.

Non avrei mai pensato che fosse così comica quando la misi nel testo, ma funzionava perché il personaggio era simpatico. Ci siamo divertiti moltissimo mettendo in scena quella commedia. Oltre che artistica, è stata un’esperienza educativa per loro tanto quanto per noi: a interpretare dei brillanti e promettenti futuri universitari erano attori che avevano lasciato la scuola a sedici anni.

E lei? Cosa le fece abbandonare la carriera universitaria e abbracciare la drammaturgia?

Non mi consideravo uno storico, benché fossi stato allievo di un carismatico medievista, Bruce Mcfarlane, che scrisse poco, ma era universalmente considerato il miglior esperto del Trecento della sua generazione. Il mio campo di ricerca era l’epoca di Riccardo II, lui sapeva qualsiasi cosa ed era scoraggiante.

Lei ha rifiutato il titolo di cavaliere, un onore al quale moltissimi intellettuali “contro” non hanno saputo rinunciare. E ai suoi esordi faceva parte di un gruppo di comici detti “anti- establishment”. Si è mai sentito tale?

«Non mi defnirei né anti, ne pro. Inizialmente il titolo di cavaliere mi venne offerto dalla signora Thatcher, ma da lei non volevo assolutamente nulla per cui ovviamente rifutai. E poi ho pensato che la khighthood non mi si addicesse e che fosse una cosa frivola. È un’ostentazione che anche mio padre, che detestava lo sfoggio, avrebbe rifutato. Non me ne sono mai pentito. Senza contare che le persone si ricordano di più di te se rifuti il cavalierato che se l’hai accettato».

Il suo umorismo è aggraziato e sottile, ma anche asciutto e ironico: è una caratteristica culturale del Nord?

«Credo di sì, anche mio padre era così, molto asciutto. Faceva il macellaio, avevamo il negozio e la casa in una parte abbastanza agiata di Leeds, quando saliva a casa – abitavamo sopra al negozio – ci parlava dei clienti e li descriveva in modo assai sarcastico. Credo che parte del mio humour venga da lì: i miei erano abbastanza timidi e riservati, ma entrambi divertenti, spesso ridevano segretamente l’uno con l’altro, noi figli non capivamo. Nonostante tutto siamo stati fortunati, abbiamo avuto un’infanzia felice. Forse un tantino noiosa, ma in retrospettiva mi considero fortunato».

Lei è spesso definito un dio del teatro: ma si è distaccato presto dalla religione…

«È vero, successe dopo il servizio militare. Eravamo uffciali cadetti e alcuni di noi studiavano il russo. L’esame per uffciali era facile, ma io non ci riuscii e fui retrocesso al ruolo di soldato semplice. Ero molto diligente e per me fu una delusione  tremenda, la prima volta in cui fui respinto. Mi destabilizzò molto, il mio atteggiamento nei confronti del mondo cambiò decisamente e diventai più radicale, persi ogni soggezione all’autorità».

Eppure il ritornello è ben noto: l’età mitiga l’avventato idealismo giovanile e lo sostituisce con un più conveniente moderatismo senile. A lei è successo il contrario.

«E sono felice di essere in controtendenza, perché il ritornello è vero soprattutto per gli scrittori e i commediografi. Osborne invecchiando è fnito a destra, è successo lo stesso a Kingsley Amis, Philip Larkin e Iris Murdoch, tutti partiti da sinistra. È un cliché che va combattuto».

Che aggettivi userebbe per descrivere la Gran Bretagna di oggi rispetto a quella della sua giovinezza?

«Molto più competitiva, soprattutto per i giovani che hanno davanti a se molti più ostacoli di quanti ne avessimo noi. Già per noi era difficile accedere a un’università prestigiosa: oggi è quasi del tutto impossibile. E poi il doversi pagare l’istruzione e uscire con quel fardello di migliaia di sterline di debito appena laureati… Io non ho mai dovuto pagare un centesimo per i miei studi.

Deve ringraziare Keynes per questo…

Forse. Ma quello che davvero mi manda in bestia quando se la prendono con lo stato. Non che uno non fosse grato per questo, semplicemente non ci pensava. Se ne avevi bisogno, sapevi che c’era».

Lei ha un’altra bestia nera: Rupert Murdoch…

«La diatriba con la stampa di Murdoch ci fu perché anni fa mi offrirono una laurea ad honorem a Oxford che, da ex-allievo, sarei stato ben felice di accettare. Ma avevano appena ricevuto sei milioni di sterline per istituirvi un Murdoch Institute of Com- munication, una cosa per me a dir poco mostruosa. Le cerimonie avrebbero dovuto svolgersi lo stesso giorno, così rifutai. Nessuno mi ha sostenuto in quella scelta. E malgrado lo scandalo del “News of the World” Murdoch è ancora lì, non so quanti anni abbia, sembra non andarsene mai».

Ma la società britannica ha fatto anche dei progressi. Cosa pensa dei diritti civili, dei matrimoni tra persone dello stesso sesso?

«Oggi non devi nemmeno più pensarci, e questo è un bene. Non avrei mai pensato che ci saremmo arrivati, che uno potesse dire “sono gay” in modo quasi naturale. Le persone ormai non se ne curano, non solo nelle grandi città. Nel villaggio dello Yorkshire dove andiamo con Rupert nessuno fa una piega. Questo è senz’altro un grosso progresso, l’aria è molto più respirabile. Quello che ancora non capisco è come ci possano essere persone gay di destra».

Lei ha sconfitto un cancro, anni fa. Cosa ne direbbe oggi?

«Non l’ho mai considerata una battaglia. Non ho mai avuto dolori, non mi sono mai sentito male durante la chemioterapia. Mi è andata senz’altro bene. La cosa peggiore naturalmente è stata l’aspetto psicologico. Mi dissero che avevo il cinquanta per cento di chance di cavarmela, per poi ammettere invece che avevo una possibilità su cinque, dunque sono stato molto fortunato. Non saprei dire se abbia cambiato il mio atteggiamento, o mi abbia fatto lavorare di più: è vero che ho scritto più commedie dopo la malattia di quanto non avessi fatto prima. Ho scritto anche un’autobiografa, ma quello è stato facile: conoscevo già la storia».

Nato a Leeds nel 1934, Alan Bennett si laurea in storia medievale nel 1957. Allievo di un carismatico medievista, Bruce Mcfarlane, si specializza sull’epoca di Riccardo II. La sua nascente carriera universitaria presso il Magdalen College di Oxford s’interrompe bruscamente nel 1960, grazie allo straordinario successo teatrale dello spettacolo “Beyond the Fringe”, da lui scritto e interpretato assieme a Peter Cook, Jonathan Miller e Dudley Moore, successo che si ripete oltreoceano. “Forty Years On”, la sua prima commedia, nel 1968, è interpretata da John Gielgud. Segue una lunga serie di commedie, flm, serie televisive e radiofoniche. Il suo successo è consacrato con i monologhi televisivi “Talking Heads” (“Signore e signori”) nel 1987. Bennett ha vinto un’infinità di premi, tra cui cinque Lawrence Olivier Awards, grazie a una serie impressionante di successi per il National Theatre sotto la direzione del suo sodale, il regista Nicholas Hytner. Ricordiamo soprattutto “La pazzia di Re Giorgio,” la cui versione cinematografica, nel 1994, gli vale la candidatura agli Oscar come miglior sceneggiatura. Seguono “La signora nel furgone” (dalla quale è appena stato tratto un film) e l’enorme successo di “The History Boys” (“Gli studenti di storia”), vincitrice di ben sei Tony Award a Broadway e da cui, nel 2006, è stato tratto l’omonimo flm. Più recenti sono “The habit of Art” (“Il vizio dell’arte”), ispirato al rapporto fra W. H. Auden e Benjamin Britten, e “People” (2012), ora pubblicato da Adelphi – suo editore italiano – col titolo “Gente”. Lo Status d’istituzione nazionale Bennett lo deve anche all’essere stato la voce di Winnie the Pooh e ai seguitissimi diari, che pubblica da anni nella “London Review of Books”. Del 2005 è l’autobiografia “Untold Stories”. Il flm tratto da “La signora nel furgone”, ispirato dalla signorina Sheperd, una clochard vissuta in varie auto abbandonate davanti casa di Bennett per quindici anni, sempre per la regia di Hytner e con Maggie Smith protagonista, è in fase di montaggio. 

(l’Espresso, 12-02-15)

(No: they could)

Dejected Yes vote campaigners make their way home

(Ovvero ciò che avrebbe potuto significare la vittoria del sì per il referendum sull’indipendenza scozzese)

In quella che potremmo definire la sinistra britannica «extralabour» il dibattito sull’indipendenza travalica i confini angusti della critica ortodossa al nazionalismo. Tale dibattito è riassumibile in questi termini: l’attuale coalizione, capitanata dalla premiata ditta Cameron & Osborne, che sta proseguendo imperterrita nello smantellamento di quel welfare state che dal secondo dopoguerra si era reso garante di una relativa pace sociale, non è che l’ultima di una serie di maggioranze che, nel centrodestra come nel centrosinistra, si avvicendano in tale smantellamento. Urgeva una via di fuga da un simile destino già scritto. L’indipendenza scozzese potrebbe esserlo. Poco importa che siano i nazionalisti a propagandarla.

Se ne sono resi conto in tanti nella sinistra britannica. Personaggi come come Billy Bragg, Tariq Ali e Irvine Welsh, artisti e intellettuali tutti riconducibili alla sinistra del Labour, hanno ripetutamente dichiarato il proprio sostegno per l’indipendenza, pur prendendo le distanze da un certo lezzo nazionalista ortodosso che si leva da alcune fila del fronte Snp. Significativa, a questo proposito, la posizione del singer-songwriter inglese Bragg. Dalle colonne del sito del Guardian, ha risposto alle accuse di tradimento della solidarietà internazionale della working class. Ha ammonito coloro che a sinistra – pur giustamente – aborrono qualunque forma di nazionalismo, invitandoli a non chiudersi nell’asfittica gabbia di un internazionalismo a tutti i costi. Ma soprattutto, ha confutato i paragoni strampalati fra il nazionalismo etnico dei fascisti del British National Party e quello civico del fronte scozzese del sì, che esprime una congerie di realtà politiche antagoniste che travalica il Snp. «Il nazionalismo etnico del Bnp è visibile a tutti: il piano per una società che esclude le persone su basi razziali. Il programma del Snp ha una posizione diametralmente opposta: è per una società inclusiva basata su dove ti trovi, non da dove vieni».

Nel motivare la propria adesione al sì, Neal Ascherson, giornalista scozzese allievo di Eric Hobsbawm, ha scritto sul quotidiano scozzese Herald: «La guerra in Iraq e Tony Blair mi hanno dimostrato che il Regno Unito non è più un paese indipendente; la campagna referendaria ha rivelato che molti scozzesi stavano rompendo la gabbia di impotenza e dirigendosi verso l’indipendenza che avrebbe portato alla grande scelta: che Scozia vogliamo?»

Da critico dell’establishment di lungo corso, Tariq Ali ha affidato i suoi commenti a un intervento sulla London Review of Books: «La Scozia è una nazione da lungo tempo» ha scritto in una editoriale collettivo, «Scopriremo presto se i suoi cittadini desiderano ora che la nazione diventi Stato. Spero di sì. Non solo aprirà nuove opportunità per il loro Paese, ma romperà lo Stato britannico atrofizzato e decadente e ne ridurrà l’efficacia come vassallo degli Stati Uniti. Questo spiega gli appelli di Obama e Hillary Clinton a votare no, un sentimento che Blair condivide appieno, ma che non osa ammettere nel timore di dare impeto alla campagna avversa». Per poi aggiungere: «La notevole crescita del movimento pro-indipendenza è il risultato dello smantellamento del welfare state da parte di Thatcher e dell’ammirazione che per esso hanno avuto Blair e Brown. Fino allora, gli scozzesi erano pronti a restare con il Labour nonostante la corruzione e ribalderia che caratterizzava la macchina del partito in Scozia. Ora non più».

Dal canto suo, lo scozzese Welsh ha scritto un appassionato intervento su Time: «Qualunque sarà il risultato, sarà quella minoranza turbolenta, litigiosa e compassionevole degli scozzesi a prevalere, e in modo del tutto straordinario. Con una percentuale d’iscritti al 97%, mai vista nel mondo occidentale, hanno mostrato che una potenza del G7, impelagata com’è in un modello di globalizzazione neoliberista, può subire una sfida, una rottura. E l’istituzione di una democrazia vibrante e non militarizzata»

(il manifesto, 19-09-14)

not so Great Britain?

«Meglio insieme?» Anche no. Le sempre più convulse battute conclusive della campagna referendaria che potrebbe segnare la più grave scissione mai subita dalla Gran Bretagna dai tempi dell’indipendenza irlandese un secolo fa, autorizzano il gioco di parole sul nome della coalizione per il no, quel Better together che suona al momento quasi afono. I recenti rivolgimenti sul possibile esito del referendum di dopodomani 18 settembre sull’indipendenza scozzese, che hanno visto il fronte dei sì inghiottire voracemente il distacco di svariati punti percentuali che li separava dai no, rendono quest’ultima manciata di ore a dir poco febbrili, in un continuo rimescolarsi di ondate di vibrante entusiasmo indipendentista e moderato buonsenso unionista.

Il bombardamento di sondaggi sostanzia il testa a testa, che getta i militanti del sì nell’euforia e quelli del no nel panico. È un testa a testa che intensifica la caccia al voto dei circa 500.000 ancora in balìa dell’indecisione. E che è in parte esacerbato da una ridda di accuse e controaccuse, nel giorno in cui David Cameron, che rischia di passare alla storia come il leader che assistette impotente al declassamento della Gran Bretagna in Media Bretagna (o da Regno Unito a regno frammentato, se si preferisce) effettua la sua ultima, malvista visita in un Paese – è ormai quasi il caso di definirlo tale – che gli è estraneo in tutto e per tutto. Questo il giorno dopo l’intervento a sorpresa, dal castello di Balmoral, una delle sue residenze scozzesi, della sovrana Elisabetta II (di madre scozzese) con una frase che sintetizza eloquentemente l’equilibrismo fra il suo essere monarca costituzionale formalmente al di sopra delle parti e regina degli scozzesi, oltre che degli inglesi, dei gallesi e dei nord irlandesi: il suo augurio che i votanti «pensino molto attentamente al futuro» suona solo superficialmente neutrale e tradisce piuttosto il timore per l’irreversibilità della traiettoria indipendentista. Nel suo progetto istituzionale postmoderno, il primo ministro scozzese e sagace leader dello Scottish National Party Alex Salmond la manterrebbe regina degli scozzesi indipendenti.

L’economia è ancora, naturalmente, l’agone in cui si gioca tutto. Lo sbandieramento di prosperosi vantaggi da una parte e le nefaste possibili conseguenze dall’altra continua senza posa. Molto verte attorno alla possibilità di mantenere la sterlina, esclusa a gran voce da Westminster ma populisticamente rivendicata dal Snp. Ma le continue, quasi petulanti dichiarazioni di megabanche come la Deutsche Bank, di gruppi finanziari, di multinazionali degli idrocarburi tra cui l’ambientalista BP, tanto per citarne alcune, secondo cui la Scozia indipendente consegnerà i suoi cittadini a delle impennate furiose di prezzi, fughe di capitali e di aziende e impoverimento generalizzato, hanno galvanizzato un orgoglio nazionale che non ha certo bisogno delle pagliacciate mitopoietiche leghiste nostrane per affermare la propria legittimità. A poco sembrano valere le tardive aperture sulla cosiddetta devo-max, la concessione al parlamento scozzese di un’ancora maggiore autonomia qualora la nazione decidesse di restare nell’unione. La Scozia sembra credersi abbastanza ricca da potercela fare da sola.

Queste “ingerenze” da parte del mondo finanziario e d’impresa, unite all’atteggiamento prima spocchioso e quasi distratto della campagna per il no, seguito poi dal frettoloso e un po’ sconclusionato riciclo di una figura politicamente bollita come quella dell’ex primo ministro Gordon Brown – scozzese succeduto a quel Blair già premuratosi di far confluire l’agenda ideologica thatcheriana in quella del New Labour e quindi inviso alla stragrande maggioranza dell’elettorato scozzese di matrice working class -, hanno fatto scaturire una militanza dal basso che va oltre le più rosee aspettative di Salmond. Che ora concentra le ultime energie della campagna nel moltiplicare le adesioni dell’imprenditoria nazionale al progetto del si prima dell’appuntamento nel quale si gioca la ragion d’essere politica sua e di tutto il suo partito. Nel frattempo la temperatura si scalda, anche se moderatamente. Di due giorni fa è il duro attacco davanti alla sede Bbc di Glasgow da parte di alcuni militanti del sì nei confronti del principale commentatore politico della Bbc, Nick Robinson, colpevole, a detta loro, di tradire le smaccate preferenze per il no del servizio pubblico.

Qualunque sarà il risultato, un tratto emerge con chiarezza: nella contraddizione inconciliabile fra la forza centrifuga – economicamente motivata – dell’euroscetticismo targato Ukip che minaccia la defezione definitiva della Gran Bretagna dall’Ue e quella – altrettanto economicamente motivata – che minaccia l’unità del regno attraverso l’indipendenza scozzese, si situa la crisi conclamata di categorie otto-novecentesche come stato, nazione, sovranità di fronte al policentrismo acefalo e postnazionale del capitalismo globale. Per tacere della fragilità del progetto europeo tout court.

(il manifesto, 16-09-14)