Il supremo dilettante

È ozioso cercare di definire Brian Eno. No invece, è intrigante, perfino divertente.  “Mâitre à penser della cultura contemporanea”, “teorico della multidisciplinarietà”, “catalizzatore culturale”… Quasi quasi sarebbe da pensare a un’App che genera, aleatoriamente, definizioni su chi è e chi non è. Quando leggo articoli su di lui vado subito a cercarle, quelle definizioni.  Sono un autentico banco di prova per chi scrive il pezzo. Da quelle più infantili (Dr Eno) fino allo spassoso anagramma del suo nome (Brain One). Lui, che tanto ama gli anagrammi. Un amore sintomatico di tutta una metodologia. Le famose Oblique Strategies, le carte da lui create assieme a Peter Schmidt negli anni Settanta, servivano proprio ad inserire un elemento scompaginante nel processo creativo, in questo caso principalmente il lavoro in studio di registrazione, per disincagliarlo. Vari dischi importanti sono stati registrati utilizzandole.

Il post rock comincia davvero con lui. Perché del rock è stato il primo a capire i limiti della metodologia. Che abbia usato questa sua fondamentale intuizione all’inizio per scardinare una forma, e ora, da produttore di UCold2Play, cerchi precipitosamente di tenerla a galla non è affatto da leggersi come una contraddizione. Anche agli esordi, lo scardinamento era piuttosto una reinvenzione. Nel rock ha deciso di restare, nonostante le miriadi di incursioni altrove. Non mi sorprenderebbe che dopo questo Lux, seguisse un altro album nella forma canzone. Perché naturalmente, oltre che “eclettico manipolatore di linguaggi”, è anche un ottimo cantante.

È più facile avvicinarsi all’essenza di quel che è dicendo che ha dato colore, peso e volume allo spazio che sta attorno alle cose. Non esiste artista pop che abbia saputo riempire in modo altrettanto stupendamente evasivo questo spazio. Nel suo lavoro la rete è più importante della preda.  Nessuno ha saputo parlare artisticamente di cultura e intellettualmente d’arte con voce altrettanto convincente, suadente, accattivante. Le sue lectures sono lì a dimostrarlo: anche se non sviluppano affatto le suggestioni che contengono, sono sufficienti a innescare nell’ascoltatore ragionamenti molto proficui. Come quello sulla “dialettica tra samba e microchip” in conversazione con Jon Hassell, all’Ether Festival del 2009.

Naturalmente, non è immune da critiche. Tutto quel che di bene si può dire di lui è rovesciabile. L’eclettismo diventa dilettantismo, l’ambient una specie di ripiego dal non saper percorrere in modo consistente un percorso creativo consolidato, un po’ come certi figli di diplomatici che parlano abbastanza tante lingue e nessuna bene. L’inglese ha questo detto molto efficace: “Jack of all trades, master of none”: ebbene, Eno ha dimostrato che non bisogna vergognarsi del non possedere appieno una tecnica. In questo è perfettamente postmoderno.

A ben guardare, la sua operazione è stata, ed è tuttora, leggibile in modo abbastanza lineare: un baby boomer che ha applicato quanto imparato alla scuola d’arte (quel College of Art generico senza cui non esisterebbero né i Joy Division né Damien Hirst, tanto per citare due nomi a caso) dando un background teorico (e quindi dignità intellettuale) alla musica pop grazie ad un’intelligenza assolutamente onnivora. Che l’industria del pop gli deve molto è confermato dalla riverenza di cui ha sempre goduto nell’ambiente: le popstar si sentono un po’ in soggezione in sua presenza, fatto corroborato da parecchi aneddoti. Salvo poi cadere vittime del suo charme arguto e iperbritannico.

Eno ha dimostrato che l’intelligenza non è necessariamente nemica della spontaneità e che le dicotomie sulle quali siamo abituati a fondare i nostri tentativi di comprensione del reale (intelletto/emozioni ecc.) sono spesso ingannevoli. In un secolo, il Ventesimo, in cui la mappa è diventata più importante del territorio, lui  – come tanti altri ma meglio di tanti altri -, ha spostato l’accento sul confine della mappa: comporre un brano musicale come se dipingesse un quadro, produrre un album come se scrivesse un testo. Il teorico dell’arte che spodesta l’artista, esattamente come il sintetizzatore, suo non-strumento d’elezione, ha spodestato gli strumenti. E mentre molti suoi colleghi erano –  e sono  – ancora impegnati a comprendere il Ventesimo secolo, lui ci si è trovato a proprio agio fin dall’inizio, impegnato com’era a indicare le vie del suo superamento.

Un superamento ora superato. Il suo ritorno all’ambient, un linguaggio ormai tanto consolidato da essere faticosamente distinguibile da certa muzak di cui era all’inizio geniale critica, ne è segno. Un altro segno è il fatto che il nuovo Lux (in uscita il prossimo 13 novembre) sia pubblicato da Warp, una casa discografica che senza di lui non sarebbe, appunto, esistita. L’obliquità e diventata ubiquità. Ma come mi ha detto dimostrando di essere capace all’occorrenza anche di un buon vecchio cliché, del suo posizionamento nella storia della cultura del secondo decennio del terzo millennio non gliene importa molto: come ogni artista, cerca di produrre qualcosa che gli piace. E comunque, provateci voi a rivoluzionare due epoche in un’unica piccola vita.

Quest’intervista, nell’Espresso in edicola da oggi, è stata per me un coronamento a lungo atteso. Eno è un mio idolo da sempre, da quando consumavo il vinile di Another Green World fregandomene di Who, Queen e Led Zeppelin. Il suo lavoro sul suono è complice della mia nevrosi audiofila. È stata una delle pochissime volte (l’altra è stata con Peter Gabriel) in cui gli parlavo da fan e non da giornalista. Un bell’incontro. Il climax è stato per me quasi all’inizio. Quando mi ha detto che non ama le cuffie per via della lateralità del suono gli ho parlato delle leggendarie Stax Sigma, un modello vintage giapponese che la elimina, dando l’illusione che la fonte sonora si trovi di fronte all’ascoltatore. Incredibilmente, non lo conosceva. “È proprio quello che fa per me!” esclama. Sto forse sognando? Ho appena dato a Brian Eno un suggerimento tecnologico.

Quello che segue è un piccolo extra della nostra chiacchierata.

Se uno decide di provare a lasciare un segno coscientemente è molto difficile che ci riesca e probabilmente non ci sarei riuscito. Lo stesso vale per questo pezzo: non cercavo di fare altro che comporre un brano musicale che mi piacesse ascoltare. D’altro canto quello che mi piacerebbe ascoltare costituisce un obiettivo in movimento ed è ovvio che non mi interessa ascoltare una musica che già altri stanno facendo. Voglio fare della musica che soltanto io posso fare, altrimenti non è altro che impilare la stessa roba. Sono abbastanza difficile da soddisfare, posso comporre musica tutto il giorno e tutta la notte ma non mi sento mai sazio finché non mi soddisfa. Quello che produco finisce nel mio archivio, tranne quando ogni tanto non sento qualcosa che cattura la mia attenzione, qualcosa che non avevo sentito prima e che mi piace. È soltanto questo il criterio che seguo. Ricordo anni fa di aver letto l’intervista a un detective americano di Chicago di grande successo. L’intervistatore gli chiedeva come mai fosse così bravo, più bravo degli altri. E lui rispose: “se di solito fai un doppio take, beh fai un triplo take”* che in buona sostanza significa fare molta attenzione a ciò che si nota. Nel caso della musica spesso si tratta di minime cose, come ad esempio quel particolare passaggio: se cattura la tua attenzione allora devi crederci, seguilo, anche se fosse una cosa assolutamente minima. Ad esempio, i pittori fanno sempre dei dipinti bidimensionali senza nemmeno pensarci: è una di quelle idee che nessuno ha mai pensato di mettere in questione. Di altre idee invece si è consapevoli, si sa che le si sta recuperando dal passato e riutilizzando per vedere come si comportano in nuovo contesto. Altre invece vengono deliberatamente escluse, e quella è una decisione. Infine, un’ultima piccola percentuale è composta da idee effettivamente nuove idee di cui nessuno ha mai sentito parlare prima, te compreso. Trovo molto interessante guardare al proprio lavoro in retrospettiva e vedere quali parti di esso appartengono a queste quattro categorie: è un tipo di analisi che mi piace particolarmente.

* “to do a double take” si riferisce a quando una persona vede casualmente qualcosa che colpisce la sua attenzione solo in un secondo momento, e mima nuovamente il gesto di osservarla con lentezza esagerata per enfatizzare la sorpresa.

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And there you stand, making my life possible

Le canzoni d’amore sono noiose. L’amore è una cosa troppo importante per essere banalizzato, regolarmente, instancabilmente da mille canzonette o filmetti di quarta. Ma l’”amore” tira, da sempre. Nel suo nome, come nel nome della libertà, si perpetrano nefandezze culturali di imperdonabile gravità. Non c’è niente che vende, accarezza e rincoglionisce come l’”amore”. Così diverso dall’amore.

Le canzoni d’amore che meritano davvero questo titolo sono poche. Non è mia intenzione enumerarne una lista, vista la detestabilità delle liste. Ma questa ve la voglio proporre perché secondo me è un autentico capolavoro, la cosa più bella della discografia intera di David Sylvian.  Un brano imperfetto (la parte strumentale è una ticchia lunga, nonostante la magia ultramondana della tromba di Jon Hassell), che apre in maniera folgorante grazie a un testo che leva il fiato. Ogni volta che capita nel lettore, non posso continuare a fare quello che faccio. Mi devo fermare. Torno innocente di fronte alla bellezza.

Nella saturazione musicale delle nostre giornate siamo diventati come medici di fronte alla morte: il bello non ci commuove quasi più, diventa un sottofondo. Provate a chiedervi quanta musica è capace di distogliervi da quello che state facendo in questo momento, anziché accompagnarlo.

È amore vero quello espresso da Sylvian, non innamoramento (volendo noleggiare l’immagine da un immortale autore italiano che lasceremo anonimo), l’amore che non è possibile non vedere davanti a sé quando finalmente si crede ai propri occhi.

L’amore che nonostante tutto, quello che lead our life back to the soil.

When you come to me
I’ll question myself again
Is this grip on life still my own

When every step I take
Leads me so far away
Every thought should bring me closer home

And there you stand
Making my life possible
Raise my hands up to heaven
But only you could know

My whole world stands in front of me
By the look in your eyes
By the look in your eyes
My whole life stretches in front of me
Reaching up like a flower
Leading my life back to the soil

Every plan I’ve made’s
Lost in the scheme of things
Within each lesson lies the price to learn

A reason to believe
Divorces itself from me
Every hope I hold lies in my arms

And there you stand
Making my life possible
Raise my hands up to heaven
But only you could know

My whole world stands in front of me
By the look in your eyes
By the look in your eyes
My whole life stretches in front of me
Reaching up like a flower
Leading my life back to the soil

(1984)

Non solo grande musica: grande poesia, con la quale l’esile Sylvian, splendida versione umana di uno whippet, dimostrava chiaramente di volersi scrollare di dosso il “dandismo frivolo” dei Japan. E, manco a dirlo, ci riusciva brilliantemente.

Questa è la canzone da dedicare alla persona della vostra vita. Ma, se non avete ancora capito chi è, aspettate a fargliela ascoltare.