Che ci facciamo qui?

Il pifferaio magico se ne va. Ma non prima di aver condotto la scia di ratti (sono ratti, nella fiaba) dentro le acque del fiume. È uno scenario, quello al quale assistiamo, in Italia e da fuori, in cui tutti perdono.

Non scrivo da anni, credo, di B. A un certo punto mi sono convinto che non è lui il problema. Sbagliai quando, qualche anno fa, lo paragonai a Mussolini, una tentazione giornalistica facile, alla quale non ho resistito.  B non ha questo tipo di ambizioni. L’autoritarismo fascista novecentesco è stato un fenomeno essenzialmente politico, dietro c’era un programma. B non ha mai avuto un programma politico.

Ormai è chiaro cos’è successo. Il vuoto di potere alla fine di tangentopoli, la parte moderata del paese orfana della DC, l’altra – la metà sana – in preda a una crisi isterica identitaria che presto sarebbe culminata nell’autofagia.

Entra in scena questo figuro, pieno di soldi, vuoto di idee. Anzi, pieno di anti-idee: fine della politica, trionfo del management, catartica bulimia consumistica. Assembla un partito, dopo aver preparato già, inconsapevolmente quasi, il terreno, avendo massacrato un’amorfa cultura popolare attraverso milioni di metri cubi di sbobba televisiva, ammannita gratuitamente nei tinelli degli italiani, quelli dove c’era il calendario di frate Indovino come quelli con appese le riproduzioni di Van Gogh. Possiede i suoi deputati, nel senso che ne inventa le carriere, li tiene a libro paga. Nessun leader autoritario di destra ha mai potuto fare altrettanto.

Nel frattempo, il principale partito d’opposizione, nelle mani di due leader (uno oggettivamente intelligente ma prigioniero della propria presunzione politica, l’altro oggettivamente mediocre) esprime la propria eutanasia, nella convinzione di doversi dare i requisiti ideologici giusti per svolgere la sua finzione storica. Cerca di postmodernizzarsi, convinto di dover stare al passo con un Paese che sta rapidamente cambiando pelle. Tira dentro dei cattolici cercando di inseguire l’elettorato di centro, la chimera di tutta la socialdemocrazia da Bernstein in giù. E’ il nostro modo di allinearci al neoliberismo imperante. Nulla di tutto ciò può rivaleggiare con l’apparatus di B, irreversibilmente incistatosi nell’immaginario collettivo.

Il risultato sono diciassette anni di morta gora, di immobilismo, in cui l’unico dato politico effettivamente rilevante è la nascita di una forza antipolitica, la Lega, basata sulla paura e sul rifiuto dell’altro, una forza antipolitica cha va a mangiare il fegato e i voti della sinistra radicale, mentre in Europa il Thatcherismo targato Blair la fa da padrone, complici anche “i mercati”: è la grande abbuffata della finanziarizzazione.

Poi però il capitalismo globale si inceppa. La gretta avidità, dopo aver garantito un’ascesa inebriante di profitti deregolarizzati, ai quali si è fatto moralmente fronte con una miscela di beneficienza e politically correct, entra nel suo ciclico avvitamento verso il basso. I debiti non sono più esorcizzabili nè dilazionabili, cominciano a battere alla porta di chi non poteva ma ha voluto.  Il paradosso grottesco è che B non è adatto a difenderlo, perché non è un ideologo capitalista. È solo un capitalista disonesto. E sa che è proprio grazie a una certa arcaicità del capitalismo all’italiana, fatto di intrallazzi familiari, clientele, favoritismi, prebende, un’arcaicità che sovrintende naturalmente anche la sua gestione della politica,  che ha potuto garantire l’arricchimento proprio e dei suoi, vendendo i suoi sogni di polistirolo al Paese. Quindi non fa nulla per scontentare la massa di chi lo ha votato nella speranza che li avrebbe sollevati dall’onere di essere soggetti sociali. E ha, paradossalmente, in gran parte lasciato indisturbata la spirale del debito.

Il resto è ora. Quando la nave è ormai mezza affondata, decide di lasciare. Il mondo cessa di vederlo come un giullare, in Europa monta una certa rabbia. “I mercati”, il vero arbitro dei destini del mondo, scalmanati come una gallina decapitata, vanno contro quelli che fino a ieri eravamo abituati a considerare meccanismi cardine dell’economia. In presenza di un governo stabile dovrebbero salire: in questo caso, salgono solo quando hanno la certezza che B se ne vada. Questa certezza ancora non è assoluta. L’italia rischia di fallire.

Si profilano tempi interessanti per il capitalismo. All’italiana e non.

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London’s burning

Benvenuti a Londra, città delle prossime Olimpiadi, dove atleti di tutto il mondo si confronteranno lealmente nel nome dello sport e della fratellanza fra i loghi (Tutti i property developers che hanno investito milioni rischiano di rimanere fottuti).

Benvenuti a Londra, che negli anni Novanta era di nuovo swinging, la città dove non c’è disoccupazione, dove vige un tasso accettabile di tolleranza della diversità, la città dove ci sono mille concerti, dove i bar sono disegnati dagli architetti, dove il nulla viene elevato a forma, se non d’arte, di profitto. Benvenuti nella Londra delle avanguardie, delle fiere d’arte, delle inaugurazioni delle mostre, nella Londra di London Fields, delle fanzine disegnate per l’Ipad, rifugio per i rifugiati, caveau per i ricchi, mercato per i mercanti, cuore pulsante di una finanza in preda a un improvviso attacco d’asma, la città su cui campano le redazioni cultura dei giornali di mezzo mondo, compreso chi scrive.

Quello che sta succedendo qui e in altre città di questo paese forse ha raggiunto il climax, forse no. C’è di sicuro da augurarsi che lo abbia. La furia devastatrice e arraffatrice che ha contraddistinto la terza notte di scontri non solo è cieca, è anche muta. Non sa articolare un motivo altro che il prendersi quello che non le viene dato, sullo sfondo di un futuro senza futuro, prospettive, di una realtà quotidiana nel segno dell’apartheid culturale. La quantità di individui giovani, tra i 15 e i 25 anni che in questo paese vive in ghetti e in council estates di cui nessuno parla o scrive (di solito) cresce a dismisura, una dismisura proporzionata alla rabbia e al decrescere di prospettive. L’universo nel quale si abita e si opera è un universo essenzialmente materiale, un grado zero di umanità fondata sul consumo e una prospettiva di vita e di affermazione che si ferma all’indice di quel consumo, legata a forza a quest’ultimo. E lo stesso nel quale viviamo “noi”: solo, senza lo strumento indispensabile per fruirne: i soldi.

Quando Cameron diceva in campagna elettorale che questa era una broken society lo diceva per fini propagandistici, ovviamente. A risentirle ora, quelle parole assumono tutto un altro valore e significato, più che mai sinistro. Questa si sta davvero dimostrando una broken society. Milioni di individui giovani sono al di fuori di questo buzz ormai cacofonico di information technology, industrial design, fashion design, arte, media, twitter e facebook (i rioters usano per comunicare un prodotto che ironicamente li accomuna ai boys della city ma che è terribilmente passé  a Shoreditch: il Messenger del Blackberry, anche perché non è monitorabile dall’esterno. No Apple for them).

Adesso non bisogna avere la disonestà intellettuale e politica di ignorare che il malessere è profondo, che questa società è tornata indietro di venti-trenta anni, non ha voluto cercare di integrare le masse metropolitane al suo interno con una più equa redistribuzione delle risorse e delle possibilità, mentre ha premuto l’acceleratore su un consumo autistico e demenziale. La tragedia è che ora i Tories al potere hanno un perfetto pretesto per rispolverare la loro mai sopita bramosia manganellatrice stile Thatcher e dare per scontata la perdita di una parte così cospicua del corpo sociale metropolitano. “Sono bestie e bisogna sparargli con i cannoni ad acqua, bisogna chiamare l’esercito”. Questo li allontanerà dalla linea tollerante e liberal che li ha portati al potere.

Un’altra cosa che salta agli occhi è la vistosa differenza tra una minoranza privilegiata ipervisibile agli occhi di tutto il mondo grazie alla digitalizzazione dell’informazione e la maggioranza dei “brutti, sporchi (non caucasici) e cattivi” che, di solito invisibile, improvvisamente ha preso il sopravvento in città, spinta dal flusso irrefrenabile della propria adrenalina e dalla coscienza che, non avendo nulla, non ha nulla da perdere. Migliaia di ragazzi/ini incappucciati dal volto coperto che di solito vivono in un  sottosuolo – metaforico e non -, improvvisamente escono allo scoperto, cessando di combattersi fra loro: si coalizzano, si muovono con straordinaria agilità su ali digitali nel ventre delle periferie e colpiscono, indiscriminatamente.

La tragica ironia di tutti questi danni alle cose (per fortuna), è che questi giovani distruggono i luoghi dove vivono, comprese le possibilità di miglioramento e di riscatto alle quali molte delle loro comunità cercavano di lavorare. Distruggono i negozi degli immigrati turchi e curdi di Dalston, gente che è venuta qui sfuggendo alla povertà del proprio paese. L’Apple Store di Regent Street, così affollato dalla minoranza ipervisibile della middle class bianca “creativa” era ben presidiato.

Ci si rimbocca le maniche per pulire le strade dai cocci e dalle carcasse di automobili: ancora di più ci si deve rimboccare le maniche per rifondare un tessuto sociale dalla base.  Ci vogliono decenni per una cosa del genere, e non ci sono soldi. Quando c’erano, si sono spesi male.

Continuiamo a sperare nella ripresa dei mercati. Cosa possiamo fare per ridare loro fiducia? Avrei un modesto suggerimento: privatizzare la società.