Per John Sinclair 1941-2024

John Sinclair a Detroit nel 1971, poco prima della sua sentenza per aver offerto una canna a un infiltrata della polizia. Credit Associated Press/NYT

Troppi articoli “per” in questo periodo. Oggi è il lugubre e sofferto turno di John Sinclair, magnifico leone della controcultura americana che ho avuto il privilegio di incontrare dieci anni fa qui a Londra. Un’intervista memorabile di cui ho ancora un’ora da sbobinare, cosa che farò quanto prima. Ci incontrammo in una casa che gli avevano prestato a sud della capitale, all’epoca faceva da endorsement vivente per un coffee shop di Amsterdam dove vendevano i “suoi” semi. Era venuto per un piccolo gig di spoken word dei suoi versi fradici di beat generation corretti con una sana militanza rivoluzionaria al 12 Bar di Denmark Street, prima che lo chiudessero per la consueta immobiliarizzazione della cultura. Sinclair ERA uno dei Freak Brothers anche se molto più intelligente, e presiedette a una leggendaria fase di rivolta giovanile prima che con la glorificazione dell’avidità e dell’ingordigia materiale degli anni Ottanta gli Stati Uniti contagiassero tutto il cosiddetto Occidente. Manager dei potenti MC5 – di cui anche Wayne Kramer è recentemente scomparso – fondatore delle White Panthers, vittima di un framing dei pigs dell’FBI che gli costò una sentenza di dieci anni di galera da cui fu salvato anche grazie a John & Yoko, Sinclair è stato un personaggio straordinario, lucidissimo come si evince da questa intervista, nonostante avesse/proprio perché aveva, durante la nostra fluviale conversazione, a un tratto tirato fuori non so da dove un magnifico scrigno di legno lavorato a mano dal quale, grazie a una piccola, magica torsione, erano sbucati tanti piccoli alloggiamenti recanti una succulenta cima ciascuno. Un magico offertorio che incontrò il mio deliziato sbigottimento.

E chiedo scusa se la ripubblico.

John Sinclair «sono comunista ma non dogmatico»

«Ho sviluppato il mio attivismo scoprendo Max Roach e Charles Mingus. Quando mi resi conto che tutta la musica che ascoltavo da piccolo era suonata da neri, cominciai a chiedermi: «Come mai sono sempre loro a produrre buona musica, mentre tutto il resto è così blando e scadente?». Sarà anche logora – perennemente affibbiata a fotomodelle, scarpe da ginnastica, calciatori e macchinette per il caffè – ma è definizione che gli si attaglia perfettamente: John Sinclair è un’icona. Classe 1938, poeta beat, storico e filologo del jazz, autore di libri e di infinite note di copertina di dischi, attivista antiproibizionista, promoter, manager ed eminenza grigia degli MC5 – la band di Detroit che alla fine degli anni Sessanta, assieme agli Stooges di Iggy Pop, innescò l’accecante autocombustione del punk quasi un decennio prima del punk – Sinclair è stato un formidabile motore della controcultura hippie e radical americana.

Autentico hipster e white negro, come definì Norman Mailer il cultore bianco del jazz degli anni Quaranta, bestia nera del FBI e di Nixon, caustico agitatore politico, cresciuto nel culto dei maestri del Be-Bop, fondò le White Panthers, partito rivoluzionario di studenti bianchi solidale con le pantere nere e unica formazione politica scaturita da una band rock’n’roll. Il loro «totale assalto alla cultura» piccolo-borghese, perbenista e segregazionista americana dell’epoca fu fiammata effimera quanto epica, culminata nel suo arresto per possesso di marijuana (condanna a dieci anni per aver offerto una canna a una poliziotta in borghese). Il suo rilascio avvenne dopo quasi due anni e mezzo con l’organizzazione dell’imponente raduno-concerto «John Sinclair Freedom Rally» alla Crisler Arena di Ann Arbor, in Michigan, il 10 dicembre 1971, quando una impressionante schiera di artisti, fra gli altri John Lennon e Yoko Ono, Stevie Wonder, Allen Ginsberg e Phil Ochs parlarono e suonarono per otto ore davanti a 15 mila persone.

Il leader del Black Panther Party Bobby Seale, circondato da guardie del corpo, parla al concerto a sostegno di Sinclair ad Ann Arbor, Michigan, nel dicembre 1971. Credit…Leni Sinclair/Getty Images/NYT
John Lennon e Yoko Ono salgono sul palco verso le 3 del mattino per suonare un brano scritto per Sinclair. Credit… David Fenton/Getty Images/NYT

Finito il Vietnam, mandato a casa Nixon, dal 1975 in poi, mentre il rock diventava il monumento ingordo e megalomane di sé stesso, l’America sarebbe tornata al proprio business as usual.
«John Lennon? Mi ha tirato fuori di prigione, dalle fauci della morte, dalla carcassa di un’auto in un incidente. Se ne esci vivo non ci pensi più all’incidente. Io ero illeso. È stato un periodo terribile e non penso più alla galera. Se mi punti una pistola alla tempia e mi dai diecimila dollari, forse ci ripenso. Certo che mi piace la canzone che ha cantato per me. È più bella di Imagine

Sa di mentire Sinclair, il cui ultimo album di spoken word, Mohawk, è appena uscito. Oggi vive ad Amsterdam, è una specie di gran sacerdote dell’erba nella scena coffe shop della capitale, ha un programma culto a Radio Free Amsterdam, ma non ha mai smesso di scrivere ed esibirsi nei suoi spettacoli, dove declama versi che bruciano di eterna passione per il jazz e i suoi maestri: Monk, Coltrane, Parker, Gillespie, Mingus. L’album è prodotto da Steve Fly, batterista, Dj e producer inglese. «Mi piacerebbe poter dire di essermi imbattuto in John a New Orleans, ma in realtà l’ho conosciuto via radio, ascoltando uno dei suoi programmi,» dice Steve, che potrebbe tranquillamente esserne il figlio, mentre gira un sapido joint, il primo di una serie.È un terso pomeriggio primaverile a Lewisham, in casa di loro amici, qualche giorno dopo il concerto nello storico 12 Bar Club di Denmark Street. Il laptop di Sinclair ulula free jazz stridente e incazzato. «Amo molto Amsterdam, è un posto ancora molto cool,» dice John in un morbido rantolo dalla forte cadenza del Midwest. «Ci siamo incontrati in un coffe shop di Amsterdam dove io ero poeta in residence. Per me il mondo dell’erba e quello dell’arte sono la stessa cosa. Mi muovo tranquillamente in entrambi.».

Mohawk si compone di dieci brani costruiti sul suo poema always know: a book of monk. «Scrivo versi da cinquant’anni, ma per me è sempre la stessa cosa; ieri, oggi, 30 anni fa.» Un percorso cominciato appena adolescente, «La prima volta che ascoltai Ray Charles e Wynonie Harris. Mi diedero il senso di qualcosa di grande e così è rimasto. Rimasi pietrificato da quella bellezza. Per Steve, che appartiene alla MTV generation, «È stato un percorso più intellettuale, attraverso i libri. Ma quando ho ascoltato la prima volta Miles Davis, negli anni Novanta, mi sembrava musica del futuro.»
Chiedere a Sinclair cosa pensi oggi del debito della musica pop nei confronti del jazz e del blues è un vicolo cieco. «Musica popolare è un termine senza senso per me. Monk non è musica popolare, come non lo sono Sun Ra e Muddy Waters. Non ha alcuna profondità emotiva o intellettuale, per questo non la seguo. Mi piaceva il rock and roll negli anni Sessanta, pensavo fosse l’antesignano di qualcosa di diverso. Ma da metà degli anni Settanta in poi l’hanno spento, è diventata musica di – e per – ricchi.»
Alla domanda se ritiene possibile oggi produrre qualcosa di davvero controculturale, lui che è un vero hipster in un’epoca in cui questa parola descrive individui ossessionati dal passato da un punto di vista puramente estetico e formale e le cui foto patinate appaiono su riviste pseudo-alternative ribatte sarcasticamente.

«La controcultura americana non è affatto morta, fiorisce! Si vende a peso, al dettaglio: un tatuaggio duecentocinquanta dollari, centocinquanta per dei jeans strappati o un paio di stivali. È storia vecchia. Già On the Road fece vendere milioni di paia di Levi’s.» Sta citando, senza alcuna amarezza, William Burroughs.
Steve non condivide il pessimismo del maestro. «Esistono realtà che rifiutano questa logica rigorosa, che confondono i piani. Wikileaks, Snowden, esprimono una reazione. Più cerchi di ingabbiare e di controllare qualcosa, più questo sfugge, è quasi un principio. Tutto è tenuto insieme dal linguaggio ed è da lì che bisogna partire per reagire. Per questo il jazz è importante: sfalsa i piani e introduce una dimensione alternativa grazie alla distruzione della struttura.»

C’è stato Occupy Wall Street, per esempio. «E ora dove sono?» chiede retoricamente Sinclair. «Hanno fatto cose buone ma non è durato. Per fare davvero qualcosa devi per prima cosa spegnere la televisione, uscire dalla realtà della comunicazione. Non si può stare nel e contro il mondo allo stesso tempo.» Chiudersi a riccio, insomma. «Non mi interessa la cultura contemporanea o la celebrity culture. Non conosco un attore, non guardo video o ascolto musica pop, per me Madonna o Lady Gaga o 50 Cents sono figure caricaturali. L’unica mia frivolezza è il baseball. Sono un fan dei Detroit Tigers.» Già, Detroit. Immensa città industriale abbandonata, un luogo ormai al di là della più scatenata immaginazione cyberpunk. «Ero lì appena dieci giorni fa. Quel posto è un relitto, ha cominciato a decadere già quarant’anni fa, i neri sono stati buttati fuori, due, tre generazioni di giovani non hanno mai saputo nemmeno cosa fosse un lavoro.»

Sinclair ha ricavato la sua visione del mondo dai beatniks. «On the road uscì nel settembre 1957, tre settimane dopo compivo sedici anni, lo divorai. Ero cresciuto in una cittadina di provincia di bianchi: leggendo Kerouac scoprii un mondo che non credevo esistesse né che potesse esistere, mi dissi «È qui che voglio vivere.» Poi vennero Ginsberg, Burroughs e tutti gli altri. «Per tutta la mia vita ho cercato di vivere in quel mondo, dove le persone parlavano, fumavano erba, ascoltavano jazz. Non avevamo soldi ma non importava. Al massimo servivano a trovare da fumare, non interessavano a nessuno. E lì sono rimasto. Non ho ceduto. Anche in galera, mentalmente ero sempre lì.»

Che la ribellione si fosse sviluppata proprio negli anni Sessanta in America, il luogo dove il boom consumista stava raggiungendo livelli stellari, non è affatto strano. «C’era davvero l’idea di aver trovato qualcosa di meglio, di diverso. Ero un ragazzino middle class in una cittadina di bianchi. Se avessi continuato quel percorso magari sarei diventato il senatore del Michigan. Odiavo l’università, ma era sempre meglio che lavorare.» L’impatto del jazz, il suo livello di comunicazione non verbale, serviva a trascendere gli angusti limiti della logica aristotelica, era un modello per la critica e la distruzione dell’ordine sociale imposto dal conformismo e uniformità borghesi. «Viene dall’Africa, un posto dove le persone comunicavano attraverso le percussioni con la divinità per ottenere la pioggia. Ancora oggi sento molto più vicino a un mondo del genere.»

Il colloquio è un otto volante emotivo in cui Sinclair alterna momenti di grande razionalità ad altri di languoroso abbandono. «Quegli anni? Sono stati grandi, vorrei tornassero. Eravamo un movimento di massa, diventammo enormi, soprattutto grazie al rock and roll. Loro hanno vinto, certo, ma noi abbiamo cambiato la cultura. L’obiettivo primario era uscire dal Vietnam: una volta raggiunto, tutto si sgonfiò. Molti di noi avevano una visione più ampia, eravamo comunisti. Volevamo trasformare Detroit, abbiamo lottato per sette anni, poi in troppi abbandonarono, tornarono all’università, a cercarsi un lavoro, a mettere su famiglia e spostarsi nei sobborghi per evitare i neri. Mentre la destra, contro la quale lottavamo, non ha mai smesso di lavorarsi la società americana fino agli anni Ottanta, con l’arrivo di Reagan. Fino a questo poverino che c’è adesso (Obama, ndr) circondato, come lo era Carter.»

Oggi, lontano dalla cacofonia di questo mondo che implode, Sinclair trova rifugio più che mai nel suo amore di una vita, la musica e la poesia. Adora Amsterdam, per lui è ancora un luogo libero, nonostante l’avanzata della destra xenofoba e la commercializzazione imperterrita. La città gli manca. «Ho cercato di contrastare tutto questo, ma ho perso. Se ti accorgi che non funziona, sei un idiota a insistere. Alla fine non c’era più un movimento di massa che giustificasse la lotta. Molti di noi sono passati dall’altra parte e sono diventati i più grandi figli di puttana del mondo. Non tutti, ma la maggior parte. La mia generazione era fantastica, ma si è trasformata in una montagna di merda. Ho imparato la lezione.» Si dice comunista «I’m a commie, really» ma rigorosamente non dogmatico. «Non ho una teoria, non ho Trotzkij, non ho dei. Ho mille dei. Non esiste un unico dio, il nostro problema come specie comincia col monoteismo. Ma una preghiera tutti i giorni la faccio. Perché crolli la borsa. «Kick out the Jams, motherfuckers

(il manifesto, 25 giugno 2014)

Per Assante

Sono tra i moltissimi a esser toccato nel vivo dalla scomparsa irricevibile di Ernesto Assante. Ho conosciuto Sua Assantità agli inizi degli anni Duemila, quanto collaboravo con Kataweb musica, di cui era stato co-fondatore e direttore, un esperimento nel digitale prematuro visto anche il panorama della stampa italiano dell’epoca.

Mi colpirono la sua grazia e gentilezza innanzitutto, un tratto che lo contraddistingueva. Avevo una trentina d’anni e gli dissi quanto “la trimurti” del giornalismo musicale italiano – Assante, Castaldo, Videtti – di allora fosse stata fondamentale per il mio percorso di giovane ascoltatore che negli anni Ottanta cercava ossigeno al di fuori del pur autorevole italo-cantautorato e delle melensaggini sanremesche.

Si leggevano ancora avidamente i quotidiani, il manifesto e La Repubblica. Mi vedo andare al liceo in autobus – il 913, su e giù da Monte Mario – a divorare un pezzo di Assante su Remain in Light dei Talking Heads, ancora oggi uno dei miei dischi da isola deserta (dove non bisogna andare in ogni caso, perché si finirà sommersi da soli e con tutti i dischi): era praticamente impossibile leggere cose del genere su un giornalone.

I suoi pezzi didascalici e cristallini erano il perfetto contraltare di quelli, più estetizzanti e visionari, di Gino Castaldo, un aedo della scrittura. Il Corriere non lo toccavo nemmeno con i guanti, lo consideravo un giornale della provincia lombarda – e poi, con tutto il dispetto, nell’ambiente romano Luzzatto Fegiz era immancabilmente oggetto di un certo dileggio, le solite storie di sottosviluppo campanilistico (“quella Roma che è meglio di Milano”, l’immortale Remotti) dell’italietta.

Assante ti apriva la mente, anche se era cementato negli anni Sessanta/Settanta, come da anagrafe. Gli piacevano tanto gli Who, che io non ho mai amato, vedendoli una band cock rock, sempre avvolta nel grembiule del macellaio (come i repubblicani irlandesi chiamavano l’Union Jack). Ma era avido e curioso di tutto, onnivoro, anche per via del mestiere, un mestiere ingrato, che non ti permette di avere opinioni tue e, se le hai, ti obbliga a tenertele per te nel segreto dell’urna cineraria. Perché, se piace al pubblico, ti deve piacere qualunque “nuova” mezza sega – e quante ce ne sono, lasciate borbottare il vecchio coglione che mi accingo a diventare ormai già da troppo tempo.

Lo vidi l’ultima volta qui a Londra circa un quindicennio fa a un lancio Apple, scriveva di gadget digitali, altro settore da me deprecato assai. E quasi mi dispiacquero quel suo entusiasmo puerile nei confronti del nuovo iPhone e la sua fervida ammirazione per i nuovi barracuda del capitale in dolce vita e jeans (questo pezzo potrebbe averlo scritto la Stupidità Artificiale, if you see what I mean). Ma del resto, del neoliberalismo di sinistra Repubblica è l’organo ufficiale.

Rimarrà un punto di riferimento per chiunque abbia amato la musica, la grazia e la gentilezza nell’Italia a cavallo del millennio. Lo saluto con un pezzo del criminalmente misconosciuto e apocalittico Bill Fay, che lui di certo conosceva. Perché conosceva tutto.

Carlo il Bisognoso

 

Erede una volta, erede per sempre. Charles III, attuale amministratore delegato dell’“Azienda” – corrente appellativo ultraneoliberale della monarchia Windsor – nonché Re d’Inghilterra, incamera milioni di sterline da sudditi residenti nelle “sue terre” che lasciano questa valle di lacrime senza eredi o aver fatto testamento. Tale consuetudine, detta bona vacantia – latino per “beni vacanti,” ovvero senza proprietario – ha fruttato alle casse reali una sessantina di milioni solo negli ultimi dieci anni. Lo rivela il Guardian, che ha bruciato la concorrenza nello scoprire una pratica risalente soltanto al medioevo, un’epoca ancor oggi ingenerosamente denominata “buia”.

Le cose starebbero pressappoco così: i denari di chi muore senza eredi vengono stoicamente assorbiti dal Duchy of Lancaster, una colossale tenuta fondiaria e immobiliare di proprietà del monarca e gestita esentasse a scopo di lucro, il cui territorio comprende Liverpool, Manchester, e città minori come Burnley, Preston, e l’eponima Lancaster. Stando a fonti del Ducato, i soldi mietuti grazie al tristo mietitore dovrebbero essere redistribuiti dalla corona a enti benefici. Ma secondo il quotidiano britannico non sarebbe affatto così: tolta una minima parte, vengono invece segretamente utilizzati per il rinnovo e il mantenimento degli immobili del Ducato di cui sopra – castelli, cottage, casini di caccia, imprese agricole, negozi – beni che a loro volta vengono messi a reddito attraverso il loro uso commerciale (affitti, vendita di attività agricole ecc.). Nell’ultimo decennio, soltanto il 15% di quei sessanta milioni sono stati passati a enti benefici. Per meglio individuare gli sciagurati candidati all’esproprio, i Ducati si servono di “cacciatori di eredi:” uno studio legale incaricato di accertare che questi non si si siano lasciati dietro né eredi, né ultime volontà.

Non che tutto il territorio inglese ne sia soggetto, naturalmente: i bona vacantia si applicano soltanto in feudi reali come i Ducati di Cornovaglia – il cui scopo è raccogliere fondi per l’erede al trono, al momento l’attuale principe di Galles William – e quello, appunto, di Lancaster: tutti gli altri cittadini estinti senza testamento o eredi vedono i propri beni assorbiti dal ministero del Tesoro che li spende in servizi pubblici.

Si tratta di fondi in buona sostanza neri – e non solo perché mortuari – e che contribuiscono a profitti profumati, tenendo conto che i Ducati non sono soggetti ad alcun prelievo fiscale, non pagando né la tassa sulle imprese, né quella sulle plusvalenze. Ad aggiungere beffa al danno, alcune delle anime morte espropriate dal re sarebbero state – sempre secondo l’indagine del quotidiano britannico – addirittura “indigenti:” vivevano in umili case popolari o in alloggi malandati. O peggio, alcuni di loro potrebbero essere benissimo dei repubblicani, come l’ex minatore John Talbot, che aveva partecipato allo storico sciopero del 1984-85 in cui il sindacato conobbe la sua più cocente sconfitta ad opera di Thatcher.

Che l’attuale re avesse intenzione di modernizzare l’istituto monarchico è ben noto. Certo è che notizie come questa, che paiono uscite dalle matite di Magnus e Bunker, i creatori di Superciuk, sottolineano come ci sia molto ancora da fare. È perlomeno probabile che, se non un impulso vigoroso e dovuto al repubblicanesimo, il “bona vacantiagate” provochi perlomeno un’impennata nei testamenti di chi vive, solitario, nei succitati ducati.

Abbondanti secoli dopo Edoardo il Confessore, insomma, il paese si ritrova con Carlo il Bisognoso. Che in effetti deve darsi da fare a mungere simili cascami feudali: rispetto al Creso nazionale numero uno – il duca di Westminster, che possiede gli immobili di interi quartieri londinesi tra i più ricchi, come Mayfair o l’ex paradiso degli “oligarchi” russi Belgravia – è quasi povero in canna. Anzi, in scettro.

Don McCullin a Roma

Bellissimo rivedere a Roma le foto stupefacenti di uno dei migliori fotogiornalisti del secolo – superiore forse allo stesso Capa, visto che costui deve, come al solito, molto della sua fama alla compagna.

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Ho incontrato McCullin (1935) qualche anno fa nel bar di un albergone di Belgravia. Subodoravo che sarebbe stata una bella conversazione, ma certo non che la nostra chiacchierata si sarebbe trasformata nella più bella intervista della mia “carriera.” Alla fine volevo abbracciarlo, cosa che solo la sua fragilità di ottuagenario ha impedito. L’altro ieri sera, all’apertura della sua grande retrospettiva al Palazzo delle esposizioni assieme a Boris Mikhailov, l’ho salutato e gli ho detto quanto bello fosse stato per me il nostro incontro. Le sue immagini sulla follia e la barbarie della guerra non sono riuscite a bandire ne l’una, né l’altra, come le immagini strazianti provenienti da Israele e Gaza brutalmente confermano.

Ho anche scoperto con meraviglia che la copertina di uno dei miei album preferiti – il folgorante debutto post-punk dei Killing Joke, del 1978 – è una delle sue foto più incredibili, quella dei ragazzi che scappano dai gas lacrimogeni durante gli scontri a Derry nel 1971.

Ma tutte le fasi della sua carriera, non solo quelle del reportage di guerra, sono straordinarie. A guardare le immagini della povertà nera e ferrigna del Nord dell’Inghilterra culla della rivoluzione industriale, o dell’East end di Londra – ora culla del fighettame gentrificante – brividi di indignazione ti percorrono la schiena.

Con l’occasione ripubblico qui l’intervista in toto.

La mostra dura fino al 28 gennaio ed è imperdibile.

Per Amy Winehouse, che avrebbe oggi compiuto quarant’anni

Noterelle scritte una vita fa, chiedo venia se le ripubblico.

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Amyshambles

La musica di Amy Winehouse potrà anche essere “appalling” come ha scritto qualche critico, probabilmente sedicenne, su Pitchfork tempo fa. Non posso lasciarmi trasportare dal furore iconoclasta della gioventù, anche se davvero non mi vedo a mettere la sua roba retrò nel lettore dopo una giornataccia, nonostante viva circondato da tecnologia che a stento supera il 1985. Per me lei è come un ottimo copista di Caravaggio. Che me ne frega del copista quando posso andare a S. Luigi dei Francesi? Ma non è della rilevanza, peraltro indiscutibile, di quest’artista che voglio parlare, quanto della sua incalcolabile vulnerabilità. Lo faccio dopo aver letto le reazioni della stampa britannica al concerto a Birmingham col quale ha inaugurato il suo tour in UK. Un concerto disastroso secondo alcuni, potente e autentico secondo altri, dove l’artista ciondolava instabile sul palco trangugiando secchiate di alcol mentre apriva il suo cuore alla disperazione per la sorte del marito.

Come alcuni di voi sapranno, il marito della ragazza è in galera per aver cercato di corrompere un teste dell’accusa in un processo per aggressione che lo vede imputato. Che costui sia un cialtrone, come tutti si affannano a sottolineare, è un fatto di per sé irrilevante. L’amore è cieco e tutte quelle cose lì. Amy, personaggio autentico in modo disarmante, anche nel talento, è una giovane donna incapace di mentire e tantomeno di simulare: il suo meltdown, il suo crollo psicofisico è un fenomeno che avviene in diretta, senza filtri mediatici, o le coperture di PR tipiche degli entourage di una star del suo calibro. Anche il suo matrimonio è avvenuto all’insegna dell’autenticità: a Miami, davanti a quattro persone. Dopo, un cheesburger e una chiusa in albergo, come due adolescenti in fuga.

Winehouse è una donna insicura di tutto, tranne che del suo talento. Non è bella, in primis. E in un mondo come il suo, dove il packaging conta spesso più del contenuto, essere la migliore songstress della sua generazione davvero non le basta. La sua commovente dipendenza nei confronti del marito, e quella non altrettanto commovente nei confronti delle sostanze, evocano il ricordo di altre grandi stelle tristi, non convenzionalmente attraenti e per questo autodistruttive: Edith Piaf, o Anna Magnani, per non parlare delle grandi signore del jazz: Ella, Nina, Billie. Donne a cui era negato il plauso universale e istintivo che concediamo prontamente quando i nostri occhi illuminati si posano sulla loro bellezza, e che devono fare costantemente i conti con una visibilità ottenuta solo col talento che, crudelmente, amplifica a dismisura la loro inadeguatezza estetica, o meglio, la loro soggettiva percezione di questa. Donne spesso attanagliate da dolore e tossicopendenza. 

I giornali britannici si dividono su Winehouse. Il problema è che sta nel mondo sbagliato. È una jazzista che ha fatto crossover nel mondo del pop, dove le regole sono precise: essere belle, finte, in playback. Lei non è bella, è reale e sa cantare. È arrivata direttamente ai tabloid senza passare per i fumosi jazz club. E questi, col loro populismo forcaiolo, ora ne condannano il pessimo influsso sulla gioventù (un panico moralista che accompagna da sempre il conservatorismo culturale). I quality papers la difendono, terrorizzati dall’essere tacciati piccolo borghesi. Per loro, Winehouse è un altro agnello sacrificato sull’altare della celebrità. In mezzo sta l’essere umano Winehouse, inafferrabile eppure disarmante nel suo bisogno di aiuto. Un aiuto che la società dello spettacolo non è capace di, né tenuta a, dare.

(15/11/07)

Tony Bennett 1926-2023

Un paio di mie interviste con il crooner per eccellenza, che ha lasciato oggi questa valle di fuoco, grandine e lacrime. (I titoli mancano perché ovviamente non li mettevo io e da smooth operator quale sono sempre stato non mi sono fatto dare i .pdf.)

Tony Bennett non è esattamente un nome che affolla i vostri ricordi. Ma affolla quelli dei vostri genitori, statene certi. Da quando Sinatra “has left the building”, è rimasto lui, Tony, ottant’anni portati con grazia, a rappresentare l’arte del cantare standard, con la sua italonewyorkesità schietta e affabile. Tony parla con accento del Queens, quello di Goodfellas, per intenderci: è infatti nato ad Astoria, Queens, NYC. Scoperto da Bob Hope, ha avuto una carriera luminosa, anche grazie all’aiuto di un ammiratore d’eccezione, Sinatra. La sua è stata una parabola di successi (è anche un affermato pittore) che hanno segnato la cultura popolare americana del secondo dopoguerra. Ha un prestigio tale che a festeggiare l’ottuagenario crooner è accorso un manipolo di superstar a duettare con lui in “Tony Bennett Duets An American Classic”. E sapete una cosa? Che siano Sting o McCartney, Bono o Costello, George Michael o Elton John, dal confronto con Bennett escono tutti un po’ malconci: gli unici che gli tengono testa sono i veri cantanti: Stevie Wonder e Barbra Streisand. Lo incontriamo in una suite del Dorchester, la stessa dove siamo cresciuti, cosa che rende il tutto meno inibente. Verrebbe da chiamarlo “maestro”, come si fa coi musicisti classici.

Mr Bennett, solo venti minuti e tante cose da chiedere…

«Se non riesci a raccontarti in venti minuti vuol dire che hai dei problemi!» (ride)

Questo album ha voluto registrarlo dal vivo. Una cosa a cui lei è abituato, forse i suoi colleghi un po’ meno… Crede di averli imbarazzati?

«No di certo. Ma non potevano credere che facessi tutto in tre o quattro prove. Quando gli dicevo “Questa va bene”, di solito alla terza prova, mi dicevano “Ma sei sicuro?”, perché di solito oggi ci vogliono settimane prima di accontentarsi del risultato. Io cerco sempre di creare una spontaneità che sia vicina alla performance live. Non riuscivano a farsene una ragione. Continuavano a chiedermi “Ma vuoi davvero registrare così?” – “Certo!”, rispondevo. Se si ripete il pezzo dieci volte si appiattisce tutto, i musicisti poi si annoiano, e poi si sente nel risultato finale».

Quale dei duetti l’ha emozionata di più?

«Ce ne sono stati un paio, quello con Barbra Streisand è stato stupendo, ma quello che mi ha davvero commosso è stato con Stevie Wonder. A ottant’anni di età non puoi non avere un opinione diretta su quello che è buono e quello che non lo è».

Ne ha il diritto.

«Quello che mi ha sorpreso è che ciascuno di questi artisti si è preparato scrupolosamente. Per me è stata una delizia cantare con loro, anziché brontolare “Ah, la scena non è più quella di una volta!” Sono degli artisti ormai istituzionali, che non saranno di certo dimenticati fra tre o quattro anni».

Lei fu scoperto da Bob Hope. Che come un altro grande, Frank Sinatra, ha svolto un ruolo importante per lei.

«Era appena finita la guerra, mi esibivo nel Village con Pearl Bailey ed ero l’unico bianco in uno show con tutti artisti afroamericani: Bob era venuto per vedere Pearl e si entusiasmò per me. All’epoca avevo un nome d’arte, Joe Bari. Bob mi disse: “Andiamo, quella è una città italiana, cambiamolo! Qual’è il tuo vero nome?” “Anthony Dominick Benedetto”. E lui: “È troppo lungo per il marquee (la pensilina su cui si scrive il nome dell’artista, NdR)”. “Lo possiamo americanizzare: ti chiamerai Tony Bennett”. E da allora quando canto sono Tony Bennett; quando dipingo sono Benedetto».

Sinatra. Diede un’intervista a Life nel 1965 dove disse che lei era il suo cantante preferito.

«Mi cambiò la vita».

Ma non era già famoso?

«No, ero ancora agli inizi. Avevo venduto un paio di milioni di dischi all’epoca. Ma lui fece questa dichiarazione e tutti i suoi fan dissero: “Ascoltiamo questo Bennett, vediamo se Frank ha ragione”. Da allora è veramente cominciato il mio successo mondiale».

Qual’era il suo rapporto con Sinatra l’uomo?

«Il Ratpack era in California, io stavo a New York. Ma diventammo amici molto stretti. Non me lo ha mai detto personalmente ma al suo entourage diceva: “Se mai avessi avuto un fratello mi sarebbe piaciuto fosse Tony Bennett”».

Facevate baldoria assieme? Erano anni di grande edonismo…

«Veramente no, ci siamo visti poche volte. Era un uomo pieno d’entusiasmo: Sinatra era uno che sinceramente amava gli altri artisti. Quelli che stimava li ha sempre sostenuti, fossero cantanti o attori. Per questo la scuola che ho aperto nel quartiere della mia infanzia a NYC, Astoria, porta il suo nome».

Lei è un democratico e un progressista. Crede che sia ancora importante usare il proprio peso, prestigio e fama a sostegno di cause sociali e politiche?

«Una volta ho incontrato Pablo Casals: lui e Picasso dovettero scappare dalla Spagna durante la dittatura franchista. Entrambi pensavano che sarebbero tornati alla morte di Franco. Mi trovavo in Portorico e gli chiesi se voleva incontrarmi. Lui non mi conosceva sapeva solo che ero un cantante pop».

Fu gentile con lei?

«Moltissimo: mi disse “Sa chi è il più importante artista contemporaneo americano? Harry Belafonte”, che era un mio amico. Gli chiesi perché. “Perché ha umili origini. E quando uno come lui diventa famoso deve raccontare alla gente le difficoltà e le ingiustizie sociali che ha dovuto soffrire.” Per questo è molto importante dare voce, prendere posizione. Per cercare di migliorare il mondo per quanto possibile. Per questo credo che uno come Bono stia facendo un lavoro fantastico. Combattere la povertà mondiale è un primo passo per eliminare la guerra: era il sogno di Abramo Lincoln e nessuno ha cercato ancora di realizzarlo».

(Rockstar, dicembre 2006)

Tony Bennett è un gentiluomo d’altri tempi. Il leggendario “crooner” la cui voce suadente ha accompagnato l’America e il mondo dal secondo dopoguerra ad oggi, ha appena compiuto ottant’anni e li ha celebrati con un disco di duetti che antologizza i massimi nomi mondiali del pop. Da Paul McCartney a Stevie Wonder, da Billy Joel a Barbra Streisand, passando per Sting, Bono, George Michael e Elton John sono molti i pesi massimi accorsi a rendergli omaggio. È raro che un solo artista riesca a mobilitare simili collaborazioni in un unico disco. Ma non per il figlio d’immigrati calabresi Anthony Dominick Benedetto (Benedetto è il nome che adotta per l’altra sua passione: la pittura), che scoperto da Bob Hope e amico personale di Sinatra, ha saputo restare sulla cresta dell’onda per quarant’anni. Oggi è a Londra a presentare “Tony Bennett Duets An American Classic”: lo abbiamo incontrato al Dorchester Hotel.

Mr Bennett, un album che riassume una carriera straordinaria, con alcuni tra gli artisti più famosi del mondo: cos’ha significato per lei?

«Una splendida esperienza. Abbiamo anche registrato uno show televisivo davvero bello, che verrà trasmesso in tutto il mondo, con Barbra Streisand, Stevie Wonder, kd lang, Diana Krall. È il primo musical pensato per la televisione, ma girato come un film. C’è voluto un mese per registrarlo con ciascun artista. È diretto da Rob Marshall che è il “Fellini” degli Usa al momento, ha già avuto due nominations di seguito all’Oscar per Chicago e Memories Of a Geisha. Ha fatto uno splendido lavoro».

Ogni canzone di quest’album è un classico, un capitolo a parte. Come ha abbinato le canzoni agli artisti?

Ho contribuito a fissare The Great American Songbook, le 35 canzoni che sono entrate a far parte del patrimonio nazionale. Abbiamo dato 4 canzoni a ciascun artista e loro hanno scelto quella che preferivano. I duetti che amo di più sono quello con Barbra Streisand (“Smile”) e quello con Stevie Wonder (“For Once in My Life”).

Lei ha avuto una vita e una carriera straordinaria, ha sofferto dei momenti di declino, ma è riuscito a reagire, a tornare e a conquistare un pubblico del tutto nuovo senza tradire il suo stile. Come ha fatto?

Grazie a una cosa inventata dagli italiani. Si chiama “bel canto”. È una questione di disciplina. Basta esercitare la voce tutti i giorni, così da sentirsi centrati. Tutti le critiche dal mondo intero dicono che non ho mai cantato meglio, e ho ottant’anni! Il belcanto è per i cosiddetti upper singers, cantanti le cui voci hanno un alto registro e un arco temporale breve perché raggiunti i 35 anni d’età cambiano. Ma dato che io ho sempre usato un microfono, come tutti i cantanti pop, non ho mai dovuto spingere la voce. Come il grande Di Stefano, uno dei massimi cantanti d’opera, e il preferito di Pavarotti, che aveva un orecchio fenomenale, l’equivalente di Sinatra nel pop, che continuò a cantare fino a sessantacinque anni ed era mantenendosi allo stesso livello di quando ne aveva trenta: perché ha saputo non spingere troppo.

Fellini, Di Stefano, Pavarotti: lei ha un debole per l’Italia.

Ho un’ammirazione sconfinata per l’Italia e vorrei che tutto il mondo avesse la cultura e la filosofia degli italiani. In America sono sempre rappresentati attraverso i loro lati negativi, mafia, malavita, The Sopranos, Il padrino… Con tutto il rispetto per gli attori straordinari di quel film e il suo regista, Coppola, mi sono sempre risentito per l’immagine che si ha in America dell’Italia. Io so, dal basso della mia piccola cultura, che l’Italia ha prodotto una cinquantina di geni. Cinquanta. È un primato unico. E amo il concetto di “sprezzatura” l’arte dell’essere eleganti senza sforzo, sia che si indossi un maglione o una giacca, o che si disegni un aeroplano o un’automobile. Se c’è una competizione, gli italiani vincono. Mi piacerebbe che il resto del mondo fosse così.

Ma lei è soprattutto un’icona della cultura americana contemporanea. Avrebbe voluto avere un rapporto più stretto con l’Italia, professionalmente?

Si. Sono cresciuto durante la depressione, mio padre era un emigrato della Calabria, arrivato con 35 dollari in tasca. Erano tempi durissimi. Morì quando avevo dieci anni. La leggenda della mia famiglia vuole che quando cantava dall’alto di una collina di Podargoni, il suo paese, la sua voce echeggiasse in tutta la valle. E quello fu per me una formidabile ispirazione e carica verso il canto e la musica: per questo amo tutto quello che ha a che vedere con l’Italia.

Guardandomi indietro – anche se è una cosa che non mi piace fare, cerco sempre di pensare al futuro – non posso farne a meno di riconoscere che è solo grazie alla mia famiglia se ho saputo sviluppare la passione che mi fa dipingere e cantare ogni giorno. E non ho ancora finito, sa? Ho ottant’anni e ancora molto da imparare.

(La Repubblica, 11/2006)