Per Assante

Sono tra i moltissimi a esser toccato nel vivo dalla scomparsa irricevibile di Ernesto Assante. Ho conosciuto Sua Assantità agli inizi degli anni Duemila, quanto collaboravo con Kataweb musica, di cui era stato co-fondatore e direttore, un esperimento nel digitale prematuro visto anche il panorama della stampa italiano dell’epoca.

Mi colpirono la sua grazia e gentilezza innanzitutto, un tratto che lo contraddistingueva. Avevo una trentina d’anni e gli dissi quanto “la trimurti” del giornalismo musicale italiano – Assante, Castaldo, Videtti – di allora fosse stata fondamentale per il mio percorso di giovane ascoltatore che negli anni Ottanta cercava ossigeno al di fuori del pur autorevole italo-cantautorato e delle melensaggini sanremesche.

Si leggevano ancora avidamente i quotidiani, il manifesto e La Repubblica. Mi vedo andare al liceo in autobus – il 913, su e giù da Monte Mario – a divorare un pezzo di Assante su Remain in Light dei Talking Heads, ancora oggi uno dei miei dischi da isola deserta (dove non bisogna andare in ogni caso, perché si finirà sommersi da soli e con tutti i dischi): era praticamente impossibile leggere cose del genere su un giornalone.

I suoi pezzi didascalici e cristallini erano il perfetto contraltare di quelli, più estetizzanti e visionari, di Gino Castaldo, un aedo della scrittura. Il Corriere non lo toccavo nemmeno con i guanti, lo consideravo un giornale della provincia lombarda – e poi, con tutto il dispetto, nell’ambiente romano Luzzatto Fegiz era immancabilmente oggetto di un certo dileggio, le solite storie di sottosviluppo campanilistico (“quella Roma che è meglio di Milano”, l’immortale Remotti) dell’italietta.

Assante ti apriva la mente, anche se era cementato negli anni Sessanta/Settanta, come da anagrafe. Gli piacevano tanto gli Who, che io non ho mai amato, vedendoli una band cock rock, sempre avvolta nel grembiule del macellaio (come i repubblicani irlandesi chiamavano l’Union Jack). Ma era avido e curioso di tutto, onnivoro, anche per via del mestiere, un mestiere ingrato, che non ti permette di avere opinioni tue e, se le hai, ti obbliga a tenertele per te nel segreto dell’urna cineraria. Perché, se piace al pubblico, ti deve piacere qualunque “nuova” mezza sega – e quante ce ne sono, lasciate borbottare il vecchio coglione che mi accingo a diventare ormai già da troppo tempo.

Lo vidi l’ultima volta qui a Londra circa un quindicennio fa a un lancio Apple, scriveva di gadget digitali, altro settore da me deprecato assai. E quasi mi dispiacquero quel suo entusiasmo puerile nei confronti del nuovo iPhone e la sua fervida ammirazione per i nuovi barracuda del capitale in dolce vita e jeans (questo pezzo potrebbe averlo scritto la Stupidità Artificiale, if you see what I mean). Ma del resto, del neoliberalismo di sinistra Repubblica è l’organo ufficiale.

Rimarrà un punto di riferimento per chiunque abbia amato la musica, la grazia e la gentilezza nell’Italia a cavallo del millennio. Lo saluto con un pezzo del criminalmente misconosciuto e apocalittico Bill Fay, che lui di certo conosceva. Perché conosceva tutto.

Tory wasteland

Boris Johnson sul palco di Manchester

«Get Brexit done» realizzare Brexit: l’ardimentoso slogan campeggia dietro le spalle di Boris Johnson nel giorno del suo discorso alla platea adorante del congresso Tory a Manchester, la prima da leader del partito e del Paese. Nel quale ha squadernato alfine l’ultima offerta a Bruxelles per evitare l’uscita senza accordo il 31 ottobre: un tentativo di superare l’ostilità diffusa al famigerato backstop, anticipato dal “suo” giornale, il Daily Telegraph, e poi contenuta in una lettera inviata al presidente della commissione europea Jean-Claude Juncker.

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Woodstock 1969: Peace and Love and Money

Jimi Hendrix

Finalmente ci siamo riusciti! Stavolta ce l’abbiamo fatta, non riusciranno mai più a tenerci nascosti!». Così Richie Havens – salito sul palco alle cinque del pomeriggio del 15 agosto 1969 con ore di ritardo nella prima di tre giornate memorabili che cambiarono la cultura occidentale – si rivolse alla marea umana strafatta, felice, accorsa da tutto il paese che aveva davanti, prima di lanciarsi in un set febbrile ed esaltante. Attorno c’era l’equivalente della popolazione della seconda città dello stato di New York. Erano lì per lui e altri trenta artisti che si sarebbero esibiti alla Woodstock Music and Art Fair. Ma erano lì anche per scoprire una nuova dimensione di loro stessi.

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