Sarà senz’altro meno peggio dell’emofilia, ma l’audiofilia rimane un’insidiosa patologia. Me ne sto accorgendo in queste settimane, dopo un upgrade del mio impianto. No, non è un pretesto per scrivere un poema epico su quest’ultimo, visto che avrei bisogno di ritirarmi in una log cabin su un fiordo norvegese per rendergli giustizia. È solo una considerazione indotta dal fatto che, da quando l’ho installato, non faccio altro che rivisitare la mia collezione a caso, senza altro criterio che la curiosità di paragonare i nuovi ascolti con quelli del passato.
La differenza è innegabile; e visto che l’impianto precedente non era esattamente un citofono, risulta chiaro che mi stia affacciando sull’orlo di un abisso: quello della riproducibilità impossibile del reale, il perno su cui si innesta l’industria intera dell’alta fedeltà e dei facoltosi tossicodipendenti che la sostengono. Com’era quel detto? Se il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito: ebbene, da giorni io sono quell’imbecille.
Il rischio è finire come quello che mi ha venduto l’impianto: giudicare i dischi in base alla qualità delle registrazioni. Pare assurdo, ma quando ci si abitua a sentire bene la fonte si sente anche quando in studio si è fatto un lavoro rabberciato. In questo caso, sentire meglio equivale a sentire peggio. Anche lasciando da parte il fatto che in moltissimi album di molti generi la cattiva registrazione è programmatica o quasi, al pari della incompleta padronanza tecnica dei musicisti, si rischia di incorrere in cocenti scoperte.
Ad esempio, che i primi dischi dei Genesis dell’era Gabriel fino a “The Lamb Lies Down on Broadway”, che scorrono nelle vene del sottoscritto (la prima cosa di mio gusto della sua collezione su cui mi fosse caduto l’occhio), hanno un suono davvero miserello. “Terrible recording!” proclamava inorridito il mio dealer, che quasi non voleva che quei suoni sporcassero le casse da quattordicimila Euro che gli avevo pregato di farmi ascoltare , con lo stesso spirito con cui ti faresti due passi nel parco di Windsor: fruire, con la disarmante consapevolezza che non si possiederà mai.
Anche se nemmeno i remaster riescono a redimere la pochezza audio di quei dischi fantastici se riascoltati Come Si Deve, ciò naturalmente non toglie che restino alla base del mio emocromo al pari di altre sostanze; eppure, ora la loro aura è intaccata per sempre da questa nuova consapevolezza. Allo stesso tempo, vedo chiaramente affacciarsi un altro pericolo: quello di allontanarmi dal contenuto formale ed emotivo della musica alla ricerca del puro diletto sensoriale fornito dall’ascolto di un’informazione nitida. Una riproducibilità tecnica che, a forza di lucidarla, ammazza l’arte nelle nostre orecchie. Non significa che sia meglio ascoltare la musica male, come facciamo tutti i giorni attraverso le mille stupide cannule con le quali ci viene inoculata, basta non esagerare nell’altro senso. Continuare a guardare soprattutto la luna insomma, ma non prima di aver scelto bene il dito che ce la indichi.