Christopher Hitchens ha perso la sua battaglia contro il cancro. Anzi, come diceva lui, usando un termine che non poteva essergli alieno, “resistenza”. È stato un uomo importante, uno che cercava la controversia come un cane da tartufo, e quando la trovava ci si crogiolava con l’entusiasmo di un bambino.
Una mente veloce la sua, tagliente, e quel classico itinerario liberal, da-Trockij-ai-cocktail-party-di-Manhattan™. Innumerevoli le collaborazioni, da citare quella con Vanity Fair, quello americano naturalmente; il suo libro del 2007, God is not great, un utile contributo alla causa del raziocinio umano.
Per il resto, una sorta di Fallaci atlantica, per quel suo recente scagliarsi contro l’Islam e aver appoggiato l’invasione dell’Iraq, un’impresa – conclusasi proprio ieri in sordina – da 4000 morti da una parte e innumerevoli dall’altra (indovinate quali) e da un trilione di dollari, che ha sfiancato l’economia degli USA; e tra i coniatori del loffio termine “islamofascismo”.
Hitchens, formidabile edonista, fumatore, bevitore e amatore inveterato, ne ha dette tante, alcune più grandi di lui. Ma resta una figura importante in questo scorcio di inizio secolo, soprattutto per l’esempio di lucidità intellettuale di fronte alla fine. Una lucidità di cui quest’intervista con Jeremy Paxman è impressionante dimostrazione.