
È una Götterdammerung finanziaria, la caduta degli Dei del Valhalla azionario traditi dalla propria arroganza e avidità, cui si cercherà di rimediare con un paio di decapitazioni eccellenti e una raffica di riforme, sempre che la pazienza di chi è solito farne le spese, i cittadini, non si esaurisca.
L’affaire Libor ha mandato in frantumi non solo la reputazione del colosso Barclays e della City di Londra, cuore della finanza mondiale e fiore all’occhiello dell’economia nazionale, oltre a quella della classe politica al completo: sta spingendo sull’orlo del’esasperazione l’opinione pubblica britannica, che per quanto flemmatica erestia a indignarsi sta dando segni di forte insofferenza. In tanti vorrebbero vedere le banche completamente nazionalizzate, anche se è più probabile che venga reintrodotto qualcosa di simile al Glass–Steagall Act, la legge americana che dopo la grande depressione separava le attività di investimento da quelle commerciali, o il ridimensionamento dei maggiori istituti di credito per favorire la competizione. I soliti tabloid, almeno quelli di centrosinistra come il Daily Mirror, chiedono a gran voce la galera per “gli squali”, e c’è chi invoca vere e proprie purghe nel consiglio di amministrazione della banca incriminata. Barclays aveva già subito una rivolta dei propri azionisti lo scorso aprile, infuriati dai bonus che la banca aveva deciso di pagarsi per il 2011. Ora una sempre maggiore quota di correntisti sta scegliendo di “votare col proprio portafoglio”: di esercitare cioè la propria volontà democratica non cambiando i vertici politici organici a un sistema malato, bensì spostando i propri risparmi dalle grandi banche come Barclays o Lloyds ad altri minori istituti di credito. Dal voto di protesta al conto di protesta insomma, perché “banca etica” non suoni più come un ossimoro.
Sono movimenti tettonici dell’umore nazionale che la classe politica stenta a cogliere in modo adeguato. Salta infatti all’occhio il contrasto tra l’indolenza del governo nel rispondere a ripetuti crimini che costano miliardi alla collettività e le punizioni fulminee ed esemplari ai ladri di galline dei riots della scorsa estate: due pesi e due misure in un Paese che tollera con nonchalance la maggiore povertà infantile d’Europa come le paghe da favola dei “city boys”. E che taglia il welfare alla prima con più slancio dei bonus ai secondi.
Governo e opposizione ne escono altrettanto male. Dopo essersi azzannati in Parlamento, con il cancelliere Osborne che cercava sguaiatamente di trascinare con sé nelle sabbie mobili il rivale-ombra Ed Balls, accusandolo – dopo aver condotto un’indagine personale negli ambienti finanziari per incastrarlo – di essere stato a conoscenza degli inciuci di questa finanza sans souci, Tories e Labour hanno istituito una commissione parlamentare d’inchiesta bipartisan nella speranza di risolvere il tutto rapidamente, nonostante Ed Miliband avesse chiesto la convocazione di un’inchiesta pubblica e indipendente in stile Leveson Inquiry. Mentre l’imbarazzo per David Cameron, figlio di un banchiere e leader di un partito sovvenzionato munificamente dalla City in cambio di politiche che ne proteggano l’impunità, cresce.
Che il Re fosse nudo si sapeva. La consapevolezza di queste pratiche era diffusa nelle trading room e fuori. Ma ora che Barclays è uscita allo scoperto, la crapula dei derivati e degli altri prodotti generati grazie ad operazioni di stupefacente complessità è probabilmente giunta al capolinea. Perché Barclays, uno dei “big five” (le altre sono LloydsTSB e Royal Bank of Scotland, entrambe nazionalizzate, l’americana HSBC e la spagnola Santander) che dominano il mercato nazionale, non è che la punta di un iceberg che potrebbe estendersi ad altri giganti dell’Eurozona, tra cui la Deutsche Bank, e in USA, con JPMorgan Chase e Citigroup, fino ad organizzazioni presunte irreprensibili, come la Banca d’Inghilterra, la Finance Service Authority (FSA), o la British Bankers Association. Secondo Tom Kirchmaier, lecturer di business economics alla LSE, è quest’ultima la vera responsabile: un organismo “incompetente e cieco rispetto a quanto accadeva, che dovrebbe essere in grado di autoregolamentarsi e non ne è stato capace”.
Le dimissioni di Bob Diamond, l’amministratore delegato americano della banca e protagonista dell’ormai familiare balletto del “resto, non resto”, come del suo collaboratore più prossimo, Jerry del Missier, fresco di nomina e appena sbarcato nella capitale dagli USA, non hanno calmato le acque. Diamond ha dichiarato di essersi “sentito male” nel leggere le email in cui i suoi sottoposti si accordavano affibbiandosi nomignoli goliardici e pregustando brindisi a base di Bollinger: ma è probabile che abbia esagerato la propria sensibilità, soprattutto a sentire le dichiarazioni di un anonimo banchiere all’”Independent”, secondo cui i vertici della banca, lui compreso, sapevano tutto.
Il boss della Barclays starà peggio quando gli sarà negata la solita buonuscita milionaria: come a Sir Fred Godwin, che dopo aver mandato la Royal Bank of Scotland a fracassarsi sugli scogli non voleva rinunciare a una pensione non proprio da esodato (900.000 euro l’anno). Diamond non è che l’ultimo CEO nella bufera per il contrasto a dir poco surreale fra i livelli del proprio stipendio (mostruosi), le perdite di cui è responsabile (ingenti) e i benefici resi ai clienti e agli investitori della sua banca (trascurabili). La debacle Barclays arriva poco dopo il caos della Natwest, controllata da Royal Bank of Scotland, quando un errore informatico aveva bloccato i prelievi scatenando un’ondata di malcontento e panico: in molti avevano temuto una crisi di liquidità come quella che portò al collasso di Northern Rock nel 2008, prima onda d’urto europea dei famigerati subprime americani.
La tragica ironia è che il cartello bancario britannico (tutto è in mano a tre-quattro colossi, contrariamente al resto d’Europa, dove abbondano banche locali di medio e piccolo cabotaggio) fin dai tempi del big bang, la famigerata deregulation del 1986 con cui Thatcher lanciò a briglia sciolta il focoso destriero della City, si è sviluppato principalmente sul trading che dà profitti a brevissima scadenza, trascurando l’assai meno remunerativa attività commerciale: ne consegue che nell’attuale crisi le banche non prestino denaro a sufficienza alle piccole imprese per stimolare la ripresa. Stipulato dai Tories per fronteggiare la crisi della deindustrializzazione e recuperare terreno rispetto a Wall Street, il patto scellerato è stato rinnovato da Blair e Brown, in una continuità che concorre a rendere i due partiti sempre meno distinguibili. Non senza il plauso di Bruxelles. “La City sembrava il luogo giusto per ospitare questo genere di attività” continua Kirchmaier, “E lo ha fatto finora in perfetta identità di vedute con il resto d’Europa. Ora che risulta evidente l’insostenibilità dello status quo si vorrebbe spostare il baricentro delle transazioni in Europa. Ma il vero problema è come regolare le banche, stabilire quanti rischi siamo disposti a lasciar loro assumere”.
Resta impressionante la recidività di molti di questi broker ultragasati, dagli occhi iniettati di dollari. Subito dopo la crisi del 2008, mentre lo Stato, sia negli Stati Uniti dopo il collasso Lehman Brothers, che nel Regno Unito, praticava flebo colossali di denaro pubblico nelle vene di banche considerate, per dirla con Greenspan, “too big to fail”, troppo grandi per crollare, i boss delle maggiori banche di investimento hanno continuato a fare come se nulla fosse, protetti da una connivenza collettiva nel nome del disegno neoliberale alla base dell’establishment nazionale. Ma ora la lista degli scandali comincia a essere lunga: si va delle spese personali dei politici, alle intercettazioni telefoniche, dai bonus a banchieri rapaci e incompetenti pagati con denaro pubblico, alla corruzione preoccupante nella polizia (con 8.500 accuse mosse agli agenti in tre anni) fino a quest’ultima resa dei conti nei vertici Barclays. Abbastanza, forse da erodere un consenso sociale che ha radici secolari.