In questi giorni in cui non si fa altro che parlare dei Beatles io devo fare coming out, confessare il mio relativo disinteresse nei loro riguardi, pur naturalmente frammisto al rispetto (come al salubre sospetto) nei confronti di un’istituzione.
I Beatles sono la vacca sacra del pop, il big bang del rock, la madre di tutte le band e via con immaginifiche metafore. Impossibile mettere in discussione la loro grandezza: e già noiosi per questo. La mia impermeabilità nei loro confronti è un forte argomento a favore della tesi secondo cui la musica che ascolti da giovane diventa un’adorabile zavorra, un abbraccio mortale dal quale non ti liberi più. Lo dimostrano i peana in bilico fra esegesi biblica e idolatria lanciati da colleghi che avevano vent’anni quarant’anni fa. Lo dimostrano i peana in cui talvolta mi lancio io, dedicati a certi loro discendenti. Come Brian Eno, che incontrerò domani e che voglio incontrare da venticinque anni buoni, da quando ascoltavo Another Green World o Before and After Science al ginnasio, letteralmente sognando.
Forse perché tutto quello che considero interessante è venuto dopo di loro, i Beatles. E non essendomi mai confrontato con (o lamentato di) ciò che veniva prima di loro, li ho sempre dati per scontati. Anche oggi, pur non potendo fare a meno di restare imbambolato davanti alla perfezione di così tanti loro pezzi, non mi dicono granché da un punto di vista emotivo, non ho frammenti biografici impigliati nelle maglie delle loro canzoni che mi diano le vertigini quando meno me l’aspetto. E, già che mi trovo in questo improvviso confessionale estetico: non ho nemmeno un loro vinile.
I Beatles sono il Canone, un po’ come i grandi Viennesi romantici, o Bach, per la classica. Ma mentre Bach mi commuove spesso in senso puramente estetico (cioè per la pura bellezza della musica, scevra da qualunque allegato emotivo, biografico, sentimentale) i Beatles non mi commuovono mai. Vuoi perché la musica resta comunque penalizzata dal limite intrinseco della forma canzone, il cui sospetto di banalità resiste a qualsiasi tentativo “intellettualizzante”, vuoi perché, nel mio caso, quest’ultimo aspetto non viene redento da attachments emotivi, biografici, sentimentali.
Mi rendo conto di aver iniziato un discorso che non è possibile finire qui. È solo che la santificazione delle popstar mi ha sempre dato fastidio. Sarà che i Beatles sono uno dei miti fondanti di ciò che siamo diventati. E ciò che siamo diventati non mi piace affatto. E questo post è un sussulto di quel fastidio. Per cui blasfemia, iconoclastia, eresia.
Abbasso tutte le mitomanie del pop. Viva Heather Mills. Basta con ‘Imagine’ sui pianoforti dei teeneager di mezzo mondo e alla fine, diciamocelo, ‘Let it be’ e’ roba da parrocchia. Pero’: sostenere la banalita’ intrinseca della ‘forma canzone’ e’ un passo verso un’ortodossia poco auspicabile, sebbene diffusa tra i musicofili e di antica memoria nei dibattiti finanche del barocco…
A mio modesto parere, le canzoni possono essere banali certo, ma anche fulminanti esempi di poesia. E non si puo’ dire che la poesia sia sempre potenzialmente banale, credo. Siamo d’accordo che come forma musicale ha avuto un suo percorso e, strettamente parlando, anche una sua fine (sapessi quanto ne ho sentito parlare della morte della canzone nel ‘500, caro Leo !!!). Ma la canzone fa parte della politica e della resistenza (vedi l’esempio recente delle Pussy Riots), della memoria storica (le mondine), della pratica culturale e spirituale (roots reggae), nonche’, naturalmente, della vita cosiddetta sentimentale (Leonard Cohen?). Non e’ necessario avere risonanza con la propria biografia per apprezzare le tante possibilita’ date dall’ascolto di una canzone. Se la potenza lirica e’ sufficiente, una canzone, al pari di una poesia, un racconto, un opera d’arte, puo’ mostrare altri mondi e altre storie e trasportarci in esse. Everything is interconnected.
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E soprattutto, sì, viva Heather Mills.
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era naturalmente un’affermazione provocatoria, che intendeva suscitare commenti limpido e articolati come il tuo. mi riferivo senz’altro alla canzone pop di rapido consumo (cuore/amore, moon/june) che, per quanto importante nel vissuto collettivo e personale per i motivi biografici di cui sopra, fa della sua banalità intrinseca una bandiera. una banalità cui peraltro il jazz e le sue contaminazioni, la musica contemporanea, certa elettronica, hanno sempre saputo fornire un’alternativa (non certo una reazione). è quella stessa emancipazione dalla banalità di cui i medesimi beatles (da love me do a magical mistery tour, doppio bianco, sgt. pepper) nella loro smisurata crescita artistica hanno sentito l’esigenza. credo che la forma canzone, da un punto di vista cronologico, abbia una data di scadenza: passata la fase dell’imprinting, è difficile che torni ad ancorarsi nel vissuto individuale dell’ascoltatore profondamente come prima. da un certo momento in poi ci vuole altra musica.
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Allora forse quando saro’ grande capiro’? Non ne sono convinta, ma chissa’.
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