Su Exai degli Autechre, con lieve ritardo

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Qui non si tornava da mesi, ed era ora di farlo. No, non voglio (ancora) parlare di malattie, e poi l’ho già fatto in un libro scritto a quattro mani con un amico che uscirà a breve. Ascoltando Sign, l’ultimo degli Autechre – le mie misere considerazioni sul quale il manifesto ha benignamente accettato di pubblicare – mi è risalito il saporaccio di un pezzo su Exai (2013), il loro precedente album, scritto oramai una decina di anni fa, commissionato per una pubblicazione che soprannomineremo Rovista Tedio e che non è mai uscito, forse perché non consono alla cultura di marchetting che ne informa la linea editoriale. Un pezzo cui tenevo e che propongo qui per la prima volta.

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Woodstock 1969: Peace and Love and Money

Jimi Hendrix

Finalmente ci siamo riusciti! Stavolta ce l’abbiamo fatta, non riusciranno mai più a tenerci nascosti!». Così Richie Havens – salito sul palco alle cinque del pomeriggio del 15 agosto 1969 con ore di ritardo nella prima di tre giornate memorabili che cambiarono la cultura occidentale – si rivolse alla marea umana strafatta, felice, accorsa da tutto il paese che aveva davanti, prima di lanciarsi in un set febbrile ed esaltante. Attorno c’era l’equivalente della popolazione della seconda città dello stato di New York. Erano lì per lui e altri trenta artisti che si sarebbero esibiti alla Woodstock Music and Art Fair. Ma erano lì anche per scoprire una nuova dimensione di loro stessi.

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Chris Cornell 1964-2017

Non sono mai stato un Pearl Jam guy, erano troppo retorici per me. Preferivo di gran lunga i Soundgarden (uno dei nomi più belli mai scelti da una band) e soprattutto gli Alice In Chains, se proprio vogliamo restare nel territorio di chitarre distorte, capelli lunghi, camice a scacchi e anfibi slacciati. Ero e sono tuttora tra quelli che preferiva di gran lunga il grunge alla zuppetta tiepida post-Beatles del Britpop, un fenomeno dopato dal Melody Maker e NME per restituire imprinting nazionale a un mercato inglese allora giustamente dominato da band americane.

Certo, sono gli anni Novanta, i Nirvana erano ovunque, iniziava quello che sarebbe poi diventato il postmoderno, ciclico risciacquo dei panni del rock nell’ammorbidente dei classici, in questo caso: Black Sabbath/Led Zeppelin. Eppure, originalità a parte, queste band di Seattle erano di incredibile livello e qualità, anche solo per il fatto di avere una componente punk viva e vitale. Sopratutto, avevano dei cantanti notevoli. Cornell era il più sfacciatamente classico cantante rock, sempre a spingere la voce in territori epici e dunque infidi ma non importa, tanto c’è sempre tanto cuore a rimediare.

Questa è la performance di una band al picco della propria energia e potenza, nel tour del plumbeo Badmotorfinger, poco prima che esplodessero globalmente con Superunknown. Se pogava. E il finale, visto a poche ore dalla scomparsa di Cornell, per me da brivido.

Ciao, Mr. Cornell. You broke your rusty cage and run.

XI

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A che somiglia di più la cultura pop di questi anni? A una vecchia autoradio incantata in autoreverse, a un antico romano sul triclinio che rigurgita lo stesso banchetto, oppure a un giovane struzzo con la testa sotto la stessa sabbia? Continua a leggere “XI”

Blasfemia! Iconoclastia! Eresia!

In questi giorni in cui non si fa altro che parlare dei Beatles io devo fare coming out, confessare il mio relativo disinteresse nei loro riguardi, pur naturalmente frammisto al rispetto (come al salubre sospetto) nei confronti di un’istituzione.

I Beatles sono la vacca sacra del pop, il big bang del rock, la madre di tutte le band e via con immaginifiche metafore. Impossibile mettere in discussione la loro grandezza: e già noiosi per questo. La mia impermeabilità nei loro confronti è un forte argomento a favore della tesi secondo cui la musica che ascolti da giovane diventa un’adorabile zavorra, un abbraccio mortale dal quale non ti liberi più. Lo dimostrano i peana in bilico fra esegesi biblica e idolatria lanciati da colleghi che avevano vent’anni quarant’anni fa. Lo dimostrano i peana in cui talvolta mi lancio io, dedicati a certi loro discendenti. Come Brian Eno, che incontrerò domani e che voglio incontrare da venticinque anni buoni, da quando ascoltavo Another Green World o Before and After Science al ginnasio, letteralmente sognando.

Forse perché tutto quello che considero interessante è venuto dopo di loro, i Beatles. E non essendomi mai confrontato con (o lamentato di) ciò che veniva prima di loro, li ho sempre dati per scontati. Anche oggi, pur non potendo fare a meno di restare imbambolato davanti alla perfezione di così tanti loro pezzi, non mi dicono granché da un punto di vista emotivo, non ho frammenti biografici impigliati nelle maglie delle loro canzoni che mi diano le vertigini quando meno me l’aspetto. E, già che mi trovo in questo improvviso confessionale estetico: non ho nemmeno un loro vinile.

I Beatles sono il Canone, un po’ come i grandi Viennesi romantici, o Bach, per la classica. Ma mentre Bach mi commuove spesso in senso puramente estetico (cioè per la pura bellezza della musica, scevra da qualunque allegato emotivo, biografico, sentimentale) i Beatles non mi commuovono mai. Vuoi perché la musica resta comunque penalizzata dal limite intrinseco della forma canzone, il cui sospetto di banalità resiste a qualsiasi tentativo “intellettualizzante”, vuoi perché, nel mio caso, quest’ultimo aspetto non viene redento da attachments emotivi, biografici, sentimentali.

Mi rendo conto di aver iniziato un discorso che non è possibile finire qui. È solo che la santificazione delle popstar mi ha sempre dato fastidio. Sarà che i Beatles sono uno dei miti fondanti di ciò che siamo diventati. E ciò che siamo diventati non mi piace affatto. E questo post è un sussulto di quel fastidio. Per cui blasfemia, iconoclastia, eresia.