Beverly Hills, again

OB-ZA901_mag101_P_20130925104507-1383733021Ho scritto già di Beverly Pepper altrove qualche mese fa, ma il personaggio è di tale caratura da meritarsi altro spazio.

L’auto sobbalza un po’ mentre s’inerpica lungo le strade tortuose e dissestate della campagna umbra. «Non mi preoccupa il vivere pericolosamente. Dopo tutti questi anni, un giorno di più o uno di meno non importa», scherza molto seriamente il mio passeggero speciale: è Beverly Pepper, la madrina della scultura monumentale tardo-novecentesca. Un motto di spirito può ben permetterselo: la sua lunga e intensa vita – novantadue primavere non sono come dirlo – è senz’altro materia per un libro. «Avrebbe dovuto scriverlo mio marito Bill, che era autore. Oggi, tutto il tempo che ho lo dedico al lavoro. Non sono una narratrice, io faccio le cose. Bill aveva lavorato talmente tanti anni su Leonardo da Vinci da aver finito per credere di essere lui stesso Leonardo».

Lo storico dell’arte e scrittore Curtis Gordon (Bill) Pepper, recentemente scomparso, di stanza a Roma per “Newsweek” nel secondo dopoguerra, arrivò nella capitale con la moglie Beverly, nata Stoll, dopo aver peregrinato per conto del settimanale americano su e giù per il Mediterraneo: prima in Medio Oriente, poi in Grecia, Spagna e Cipro. Erano gli anni del riassestamento globale dopo il conflitto, l’Italia si apriva a una stagione di fervido sviluppo sullo sfondo di ricorrenti tensioni sociali. «Fui molto fortunata a vivere in quella piccola città che era Roma nel 1955, un paesone in cui tutti si conoscevano. Ero l’unica americana in una galleria italiana». Diventava quasi automatico trovarsi al tavolino di un caffè e discutere con giovani e brillanti autori come Ennio Flaiano, Alberto Moravia, o Michelangelo Antonioni.

Dopo un intenso periodo nel crogiolo della scena artistica romana, all’inizio degli anni Settanta i coniugi Pepper si acquartierano a Todi, in una delle rocche medievali che affacciano sulla valle dominata dal tempio bramantesco della Consolazione. Da lì, la carriera di Beverly, fino a poco prima una pittrice che aveva studiato da grafica pubblicitaria a New York, si apre alle nuove possibilità del metallo industriale grazie a una leggendaria mostra outdoor tenutasi nel 1962 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, “Sculture nella città”. «Quando arrivammo, ero l’unica straniera, e la sola persona che chiamai perché ci raggiungesse fu Piero Dorazio, al quale mi sentivo molto vicina», racconta Pepper, che oggi vive in un’ampia dimora, Villa Olivola, realizzata su suo progetto e adiacente all’atelier. Da allora gli artisti cominciarono ad affluire e a fermarsi – tra loro anche Antonioni, «che ripiegò su Spello» –, trasformando per anni casa Pepper in un formidabile hub creativo e culturale, lontano anni luce dal piccolo mondo da cui Beverly arrivava.

La sua è infatti la storia di una giovane artista che si affaccia, per nulla trepidante, a cavallo delle scene europea e americana, nata in una famiglia ebrea povera di mezzi, «senza il benché minimo rapporto con l’arte», ma tutt’altro che priva di cultura e fieramente democratica. «Mia madre era una donna molto politicizzata, lavorava per il partito democratico, era impegnata nella lotta per i diritti civili e aveva molti amici neri, mentre mio padre era un vero razzista. I miei bisnonni paterni venivano da Vilnius, erano stati perseguitati dai cosacchi non perché ebrei, ma perché avevano criticato lo zar. Erano molto radicali e si sposarono solo per convenienza durante la fuga. I genitori di mia nonna materna, invece, erano viennesi e più intellettuali». Con la determinazione delle femmine alfa della famiglia, proprio la nonna riesce ad avvicinare alcuni dei personaggi cardine della critica e della produzione d’arte novecentesca. «Lei e mia madre sono state due figure straordinarie. La nonna era cieca e molto grassa, ed era sempre accompagnata da un chihuahua. Era veramente bizzarro incontrare questa matrona guidata da un piccolo cane».

Quando Beverly compie sei anni, la madre le permette di disegnare sui muri del seminterrato di casa: «Lo riempii di immagini di Olivia, la fidanzata di Braccio di Ferro, perché a casa giravano quei fumetti anziché i libri. A ogni modo, partii presto: volevo andarmene da Brooklyn, attraversare il ponte. Ai miei tempi, si vedeva Manhattan dall’altra parte, e per noi quello era il mondo». Comincia gli studi di grafica pubblicitaria: «Mia madre non voleva che diventassi un’artista morta di fame e mi lasciò lavorare da subito». All’epoca, era ancora un lavoro del tutto manuale: «Ogni scritta dipinta a mano era davvero ben pagata: cinque dollari l’una, che fosse una parola lunga o no. A sedici anni quei soldi mi permisero di rendermi indipendente da mio padre, con il quale non andavo d’accordo. Poi passai a studiare design industriale, dove però non imparai nulla di scultura». Anche per questo non ama definirsi scultrice: «Ho cominciato a lavorare con la fresatrice, non certo con lo scalpello. Ho sempre usato attrezzi industriali e sono del tutto autodidatta».

Nella New York del dopoguerra imperversava il magistero dell’avanguardia europea: «L’arrivo in America di molti esponenti del Bauhaus in fuga dalle persecuzioni e dalla guerra è stato per la mia generazione fonte di grandi benefici». Il pittore ungherese György Kepes, con il quale Beverly studia, la presenta a László Moholy-Nagy. «Una volta, quando ero già in Europa, scrissi al pittore e critico inglese Roland Penrose, il quale mi accordò un appuntamento. Lo andai a trovare a Oxford e lui mi portò a visitare l’Ashmolean Museum, dove vidi per la prima volta i quadri di Paolo Uccello: fu un’esperienza straordinaria». Soprattutto perché Penrose, al quale aveva portato cinque o sei suoi lavori perché li valutasse, le chiese tranquillamente se poteva comprarne un paio: «Gli risposi che non avrei potuto venderli, ma gliene regalai uno. Ero così ignorante da non rendermi conto di cosa significasse il fatto che Roland Penrose volesse comprare i miei quadri. Mi è successo svariate volte in seguito. Era come se venissi dal deserto: non sapevo mai chi avevo di fronte».

Capitò anche con Lucio Fontana, quando questi, in visita alla prima personale di Pepper, nella galleria Marlborough, a Roma, nel 1965, si dimostrò interessato ad acquistare una scultura: «Quando mi telefonarono, io risposi che non avevo intenzione di vendere, solo di fare uno scambio con lui, che però, mi dicevano, non voleva. Alla cornetta seguì un lungo silenzio. In realtà, lui intendeva comprarne uno e, dopo, fare uno scambio. Davvero un gran signore». Un rapporto duraturo, quello con Marlborough, che a luglio ha esposto a Londra le ultime opere di Pepper, “Curvae in curvae”. Prossimi impegni, un intervento all’Ara Pacis di Roma e una cappella della Via Crucis a Todi, sua cittadina d’adozione, che ha goduto del primato di “città più vivibile del mondo” grazie alla nota ricerca di un urbanista del Kentucky, il professor Richard S. Levine.

Sulla fondatezza della valutazione, Beverly nutre qualche divertito dubbio: «Mio marito Bill, che intervistò Levine, diceva sempre: “È venuto qui con due belle studentesse, credo bene che la considerasse la città più vivibile del mondo: pasta a pranzo, vino al pomeriggio e la compagnia di due ragazze”». Si scopre così che la campagna di Todi sa essere insieme santa ed epicurea. Dal canto suo, pur avendo coniugato la potenza industriale del Modernismo con lo sguardo dolce e ascetico del panorama umbro, Pepper preferisce non approfondirne gli effetti: «Non so se il paesaggio abbia influenzato il mio lavoro tanto quanto la mia anima. Questa è davvero la terra di san Francesco, ha un’intrinseca spiritualità. Dipende dall’angolatura del cielo e da come la luce si diffonde. Non puoi fare a meno di sentirlo».

Ma è la sua massima concessione alla metafisica: «Non sono religiosa, non credo che ci sia un’entità che ci manda messaggi dallo spazio e non mi piace fare baratti, ricevere una cosa in cambio di un’altra; noto che le persone religiose lo fanno spesso. Credo nel qui e ora: dobbiamo vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, cercare di essere il più onesti possibile». E questo hic et nunc ferve di attività: «Sono felice di aver finito quel gruppo di opere e che l’accoglienza sia stata positiva. Ho appena cominciato una nuova serie di lavori. E questa è sempre una cosa positiva».

(Casa Vogue, ottobre 2014)

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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