“Sono sempre stato uno che pensa in positivo. Nella vita puoi scegliere due strade, quella facile e quella difficile. Ho sempre scelto la prima.”
Il lungo viaggio di Tommy Hilfiger, ancora ai vertici dopo un’ultratrentennale carriera punteggiata da false partenze, trionfi, battute d’arresto e spettacolari rilanci, continua nella visibilità di cui il marchio gode presso i millennials, giovani abbastanza da permettersi di guardare agli anni Novanta con interesse. L’ultima sagace mossa, il reclutamento di Gigi Hadid come coautrice di una collezione che sarà presentata in pompa magna alla New York fashion week, dimostra un occhio ancora capace di creare zeitgeist, grazie soprattutto a una presenza massiccia nella social society.
Che oggi Hilfiger, prestigioso testimonial di se stesso dopo l’acquisizione nel 2010 del marchio da parte di Phillips-Van Heusen (che ha rilevato anche Calvin Klein), abbia più tempo a disposizione, è confermato nell’uscita della sua autobiografia, intitolata non del tutto imprevedibilmente American Dreamer, in uscita per Random House a ottobre. Parte memoir, parte manuale di business, racconta la sua parabola da quando, ventenne negli anni Settanta, vendeva jeans scampanati per i giovani della sua città natale, la soporifera Elmira, Upstate NY. Per poi fallire, ricominciare e conquistare il mondo proprio con una versione rivisitata del look dal quale aveva cercato di allontanarsi nel decennio precedente. Riattualizzando l’impolverato stile preppy, Hilfiger lo ripropose ai suoi primi creatori, gli europei, facendo così un po’ il contrario di quanto fatto da Rolling Stones & Co. con il blues e il rock’n’roll. “La fecondazione reciproca accade a tutti i livelli, dalle automobili al cibo. Si prende un elemento da una determinata cultura, lo si rimixa e lo si rimanda indietro. Il nostro look proveniva dall’Inghilterra, glielo abbiamo rispedito americanizzato, e viceversa. Quello che facciamo è produrre per un mercato globale.”
Il vero momento di svolta giunse nel 1985, con la famosa campagna pubblicitaria del creativo George Lois: enigmatici cartelloni in cui il nome dell’allora sconosciuto Hilfiger veniva abbinato a quello dei ben più quotati Ralph Lauren e Calvin Klein: fu sommerso di accuse di arroganza, mentre la sua linea si vendeva come il pane. “Sapevo che fare quella campagna in cui ci paragonavamo ai massimi stilisti americani ci avrebbe attirato addosso molte critiche: non eravamo ancora parte di quella league. Era una battuta ironica, quasi uno scherzo. Klein e Lauren sono ancora oggi i massimi designer americani come lo erano 25 anni fa, ma forse oggi in quella lista ci sono anch’io.”
Negli anni Novanta, quel look Ivy League, un tempo esclusivamente bianco e upper-middle class sarebbe esploso tra i giovani hip-hopper neri dei ghetti, per poi esserne rapidamente abbandonato, creando al brand un calo e una certa confusione identitaria. “Cosa rende un classico classico? Ci ho sempre pensato e ci penso ancora oggi. Credo che l’abbigliamento tradizionale spesso diventi noioso. Per questo ho cercato di renderlo più interessante, divertente, colorato, casual e godibile. Gli studenti cominciarono a indossare i miei vestiti nei primi anni Ottanta, ci aprimmo alla moda femminile e a quella per bambini. Poi cominciammo a interessare le subculture del rap, degli skaters i dei surfers: fu lì che capii che stavamo offrendo qualcosa che ancora non c’era, uno streetwear che rimane popolare ancora oggi.”
Ma il marchio era ormai ovunque, nei vestiti e fuori, tanto da contribuire al clima che avrebbe prodotto il libro di un’altra Klein, Naomi: No logo. “Se non si effettua un monitoraggio della propria esposizione si rischiano danni, quello che ci capitò negli Usa negli anni Novanta. Ma credo che il “no logo” sia assolutamente da evitare: ti dà l’identità di cui hai bisogno. Senza un’appropriata identificazione, i vestiti sono solo vestiti.”