Su Exai degli Autechre, con lieve ritardo

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Qui non si tornava da mesi, ed era ora di farlo. No, non voglio (ancora) parlare di malattie, e poi l’ho già fatto in un libro scritto a quattro mani con un amico che uscirà a breve. Ascoltando Sign, l’ultimo degli Autechre – le mie misere considerazioni sul quale il manifesto ha benignamente accettato di pubblicare – mi è risalito il saporaccio di un pezzo su Exai (2013), il loro precedente album, scritto oramai una decina di anni fa, commissionato per una pubblicazione che soprannomineremo Rovista Tedio e che non è mai uscito, forse perché non consono alla cultura di marchetting che ne informa la linea editoriale. Un pezzo cui tenevo e che propongo qui per la prima volta.

A che somiglia di più la cultura pop di questi anni? A una vecchia autoradio incantata in autoreverse, a un antico romano sul triclinio che rigurgita lo stesso banchetto, oppure a un giovane struzzo con la testa sotto la stessa sabbia? La musica classica fa autocritica per gli eccessi antidemocratici del modernismo e torna con la coda tra le gambe all’ovile della tonalità; l’arte contemporanea non si è mossa da Warhol, se non spettacolarizzandone l’idolatria materiale con un cinismo triste quanto innocuo; per essere notata, l’architettura deve continuare a proporre i grattacieli fallici – e fallaci – d’inizio Novecento; e la musica pop di consumo, a forza di rispolverare i classici del soul e del blues, si è fatta venire l’artrite come Keith Richards. Perfino uno sperimentatore come David Bowie preferisce rivisitare Berlino con il Tony Visconti di Heroes anziché guardare avanti, mentre i Kraftwerk ormai suonano nei musei. È serialità del prevedibile, futurofobia paranoide.

Certo, ogni tanto succede qualcosa. Come l’uscita di Exai: l’ultima, undicesima (XI si legge “Exai”), superba collezione di sculture sonore – definirle “brani” è riduttivo – degli Autechre. Sean Booth e Rob Brown sono gli Hardt e Negri della musica elettronica, tra i pochi autentici artisti radicali di oggi, fiera avanguardia in un gerontocomio di retroguardie. Formatisi venticinque anni fa nei sobborghi di Manchester, sono presto finiti sotto l’ala della Warp Records, di cui costituiscono ancora il massimo vanto. Hanno al loro attivo undici album, che collegano magnificamente l’hip-hop alla musique concrète di metà XX secolo. Se c’è una discografia capace di compenetrare alto e basso, cultura dance e sperimentalismo, la caciara del rave party e la sterilità di un laboratorio d’analisi, è senz’altro la loro. 

Gli dobbiamo moltissimo. Il loro suono genera una parata di evocazioni: concettuali (metrica dell’algoritmo, pathos matematico, sequenze di poesia generativa), sensoriali (fa pensare ora a una cascata di spilli, ora al gorgoglio gastrico di un androide, ora alle urla del bosone di Higgs), e via onanisticamente. Con implacabile ars programmatoria edificano le loro cattedrali di ghiaccio, fra le cui guglie sibila un vento siderale. Mai come con la loro musica l’ascolto diventa atto creativo: dietro infinitesimali schegge in moto apparentemente aleatorio si nascondono strutture di tempo e di spazio sfarinate, che soltanto un ascolto meticoloso è capace di ricomporre in immagini di edifici in cui il collasso tridimensionale è scandito dal ritmo forsennato di beats maniacali e da improvvisi squarci armonici di contemplazione. È musica di e per infrastrutture, architettura della percezione, dolore della macchina davanti a cui si resta sbigottiti e commossi. Definirli freddi non ha senso, è un po’ come dire che il Colosseo è vecchio. 

Gli Autechre sono mistica geometrica e dadaismo sonico, una sintesi riflessa nei titoli delle loro de-composizioni – frantumi di parole e di punteggiatura che si fanno beffe di semantica e grammatica – e dai loro video (fra tutti, quello ormai classico di Alex Rutterford per il singolo “Gantz Graf”), in cui il CGI spariglia l’insieme ordinato di suono e immagine.

Exai è uno schiaffo computazionale di due ore alle arroganti favolette del postmodernismo, che credeva bastasse shakerare Paperino e Mondrian per distrarci dall’insensatezza. Il fatto che partano dal dancefloor è sufficiente a proteggere il duo dalle accuse di snobismo e difficoltà che gli sono noiosamente rivolte. Né moderni, né neomoderni (così potremmo definire l’attuale vagheggiamento per un’epoca in cui l’occidente ancora faceva le cose, piuttosto che soltanto comunicarle), gli Autechre sono, in realtà, rigorosamente contemporanei. Se la loro musica è dura e spigolosa, è perché siamo una società che all’amore preferisce le canzoni d’amore. Guardiamoci una volta per tutte allo specchio e godiamoci l’autentica autobiografia sonora del presente. In treno, nell’hinterland, con Exai in cuffia. Il futuro? Che domande, appartiene ai Beatles. 

(14/02/13)

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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