Clarkson, i sindacati e la pena di morte

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Jeremy Clarkson è un imponente omone che ama le auto rombanti e odia gli alberi. Il suo orizzonte è fatto di cavalli (motore) e idrocarburi, è un apostolo dell’automobile. Il suo programma è uno dei più seguiti della televisione di questo paese, si chiama Top Gear e parla appunto di automobili. Clarkson è quello che qui si definirebbe un “controversial character” un personaggio controverso, una delle formule più diplomatiche che questa lingua diplomatica adotta ogni qualvolta deve definire qualcosa o qualcuno di amato e odiato ad un tempo.

E Clarkson è esattamente così: amato – da coloro che vivono in West London, odiano la congestion charge e guidano un’auto di grossa cilindrata, preferibilmente tedesca (questo include Bentley e Rolls, entrambe auto tedesche) non mettono piede a Shoreditch perché è troppo “East End” e detestano il welfare state; e odiato dai lettori del Guardian, che ingeriscono copiose quantità di caffè Fair Trade, lavorano nei media, vanno in bicicletta e hanno abbracciato almeno una volta nella loro vita un semestre di vegetarianismo. C’è naturalmente una grande quantità di individui, almeno a Londra, che non ha la minima idea di chi sia Clarkson, ma questo è un altro discorso.

La sua sfacciataggine, abbinata all’imponenza fisica e a un’innegabile simpatia, lo hanno reso estremamente popolare. Clarkson è quello che potremmo definire un paladino della Middle England, la classe media conservatrice, ma non nell’accezione tradizionale del termine. Figlio di un piccolo imprenditore del Nord (in Uk il Nord è povero, il Sud ricco), è un “bloke” di mezza età, perfetto rappresentante della “Nation of shopkeepers” (nazione di bottegai”) che portò Margaret Thatcher (a sua volta una rappresentante del conservatorismo “povero”) al potere.

Una certa sua volgarità intrinseca avvicina Clarkson, che ama i Genesis, veste in jeans e incarna un’insofferenza tutta thatcheriana per la società nel suo complesso e soprattutto per la condivisione di costi individuali che il farne parte comporta, a coloro che hanno guadagnato il proprio denaro in tempi abbastanza recenti e temono che qualcosa o qualcuno possa loro toglierglielo. È famoso per le sue boutade politicamente scorrette, provocatorie, che procurano tanti piccoli orgasmi proibiti nella psiche di chi legge il Daily Mail ed è convinto di vivere in una società socialista, e in questo paese sono in tanti.

Ebbene, questo lungo preambolo per meglio contestualizzare quello che il nostro ha detto l’altro ieri in uno show televisivo della Bbc: ovvero che tutti coloro che avevano scioperato nella più grande agitazione della storia britannica recente contro i tagli al settore pubblico “dovrebbero essere fucilati davanti alle loro famiglie“. La cosa ha suscitato un comprensibile oltraggio in molti spettatori della Beeb, che subito hanno cominciato, nella tradizione di commovente civiltà che li contraddistingue, a inondare la mail box del programma di proteste, al momento sono circa 21.000. Il sindacato ne chiede la testa, Ed Miliband ha espresso il proprio disgusto, Cameron, amico personale di Clarkson, visibilmente imbarazzato ha detto che si è trattato di un’uscita sciocca.

A me non interessa il fatto che effettivamente la frase sia rimbalzata all’infinito fuori contesto (Clarkson stava scherzando sull’imparzialità della Bbc e aveva appena fatto un’affermazione di segno grossomodo opposto), né tantomeno che sia stata un’uscita scorretta. Se qualcuno avesse detto in diretta televisiva che tutti i banchieri vanno fucilati davanti ai loro autisti la cosa avrebbe suscitato altrettanto furore e a voler individuare i maggiori tra i responsabili della crisi attuale i primi figurerebbero assai avanti ai secondi. Quello che mi interessa è sottolineare come man mano che la paura della perdita del proprio universo materiale si fa strada nella coscienza dei singoli, si inneschi un proporzionale processo di abbandono della misura, della correttezza e del distacco che di solito contraddistinguono i dibattiti ideologici o presunti tali, ora che lo scafo della realtà scricchiola rumorosamente imbarcando acqua. È la conferma di una tendenza inaugurata qualche settimana fa da Frank Miller negli Usa.

Si dice che stiamo entrando in una decade paragonabile agli anni Trenta. È un’affermazione indubbiamente forte, ma non del tutto inappropriata. Quello fu il decennio del crollo di Wall Street naturalmente, dell’avvento dei fascismi, della guerra civile di Spagna e infine della seconda guerra mondiale: un decennio di gestazione maligna. Ma anche un decennio straordinariamente interessante, stimolante, storico, dove lo scontro ideologico produsse grande poesia, grande musica, grande responsabilità e coinvolgimento politico. E proprio del ritorno di quest’ultimo stiamo assistendo, paradossalmente proprio nel momento in cui la cosiddetta politica dall’alto si consegna ostaggio nelle mani dei tecnocrati: un ritorno che vede le persone scendere in piazza anche in un paese tradizionalmente disabituato al dissenso. Un momento storico in cui ciascuno capisce finalmente da che parte è sempre stato.

È in questa luce che va letta l’uscita di Clarkson. Il suo fastidio evidente nei confronti dello sciopero di coloro che – qualora lui o uno dei suoi figli finissero disgraziatamente al pronto soccorso – salverebbero loro la pelle, tradisce una tutt’altro che sommersa chiamata alle armi a difesa dello status quo. La scompostezza della boutade deve meno alla tradizionale sfacciataggine del personaggio che al suo serrare i ranghi di classe. Si ricomincia a leggere il mondo nel suo divenire storico. È non è affatto un male.

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

3 pensieri riguardo “Clarkson, i sindacati e la pena di morte”

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