La rivolta degli schermi al plasma

La storia d’Europa è piena di rivolte e guerre popolari per generi di prima necessità. Nel medioevo ci si ribellava spesso per la soddisfazione di bisogni primari, come il sale e il pane; quest’estate a Londra ci si abbandonava alla soddisfazione dei bisogni primari odierni, arraffando scarpe da ginnastica e schermi al plasma. E mentre lo scorso agosto le città di mezza Inghilterra bruciavano del fuoco della guerriglia urbana per quattro giorni e quattro notti, David Cameron era in Toscana che assaporava la dolcezza rinascimentale del Chiantishire sulle orme di Harold Acton.

Anche solo giustapporre “guerriglia” e “Chiantishire” nella stessa frase dà l’idea degli abissi socioculturali che caratterizzano la Gran Bretagna contemporanea. Questo reportage, frutto del lavoro di un team di giornalisti del Guardian, cerca di gettare un po’ di luce su un episodio di rivolta sociale che il governo e i media nazionali si sono affrettati a bollare come semplice saccheggio.

Il Guardian cerca invece di dare dignità politica a quello che è accaduto, scegliendo le interviste che più lucidamente individuano un nesso causale fra le condizioni di degrado ed emarginazione in cui versa una grossa fetta della gioventù urbana britannica e la scelta di abbandonarsi alla furia saccheggiatrice della proprietà altrui e all’attacco contro l’autorità.

A parlare sono soprattutto quelli che immaginiamo essere i più consapevoli ed articolati: come il trentenne scozzese che ha incendiato la prima auto della Polizia a Tottenham Hale dopo la morte di Mark Duggan. E come il ventenne Daniel che, avvisato via Blackberry di quello che stava succedendo, decide di tornare nove giorni prima dalle vacanze (probabilmente non in Toscana) pur di potersi prendere una vendetta personale nei confronti della polizia, da cui lui e i suoi amici subiscono continui soprusi, a loro volta indotti dal suo vivere probabilmente ai margini della legalità.

Accenti a parte, le testimonianze colpiscono per la loro comprensibilità: il gergo dei rioters è di solito enormemente più impervio, la loro una vera e propria lingua diversa dall’inglese anche tradizionalmente working class, quasi a sottolineare una totale, e fiera, non appartenenza. Sono state deliberatamente omesse, anche perché la loro approssimazione probabilmente avrebbe fatto il gioco di chi – il governo e i media – nega qualunque significato politico all’accaduto. Inoltre, ci si spinge fino a creare un collegamento fra le proteste degli studenti bianchi borghesi contro i tagli alla scuola e l’aumento esponenziale delle tasse universitarie e la “underclass”, soprattutto caraibica, che se prima aveva una chance di emancipazione grazie a quel che restava di un’idea democratica dell’istruzione, ora si vede inevitabilmente risospinta nell’oscurità metaforica dell’oblio – e non –, della galera.

Si tratta senz’altro di giornalismo “tendenzioso”, se vogliamo a fin di bene, contro quello, altrettanto tendenzioso, che dipinge i rioters come dei violenti ladri di galline. I rioters esprimono un malessere che non può essere letto in termini di protesta rivoluzionaria consapevole, ma che è fin troppo autentico e trova le sue origini nella diseguaglianza che è cardine di tutto il reale.  Il tutto è condito con musica “giovanile” (gli Unkle) il cui tono incombente e di suspense contribuisce al solito gioco televisivo che fictionalizza la realtà. Poco male. Il documentario ha un pregio: riporta l’attenzione su una frattura profonda in questa società, in cui persone che hanno gli stessi diritti di cittadinanza vivono economicamente, socialmente, culturalmente, linguisticamente in galassie diverse.

Viene da chiedersi che cosa succederà nei prossimi mesi. Se la middle class già stringe i denti per gli imminenti “duri sacrifici”, il ceto dei rioters, da imbarazzante “elephant in the room”,  rischia di diventare il nemico in una guerra civile. Buona parte del campione di intervistati ha parlato dello scorso agosto come del più bel momento della loro vita. Quattro su cinque di loro lo rifarebbero.

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Autore: leonardo clausi

Si tratta di prendere Troia, o di difenderla.

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